Il caso della giornalista italiana Cecilia Sala – arrestata a Teheran lo scorso 19 dicembre – non può non essere letto in parallelo con l’arresto di Mohammad Abedini, il cittadino iraniano fermato 3 giorni prima a Milano (su segnalazione e richiesta americana) e accusato di trafficare tecnologia bellica. Anche le dichiarazioni rilasciate dall’ambasciatore iraniano in Italia, Mohammad Reza Sabouri, alimentano il sospetto che l’arresto della reporter non sia casuale ma risponda a una logica di scambio: quella della “diplomazia degli ostaggi”.

La strategia consolidata

Sebbene Sala non sia stata rapita, ma fermata, le generiche motivazioni del suo arresto hanno immediatamente fatto pensare che Teheran intendesse utilizzarla come moneta di scambio per ottenere vantaggi politici o diplomatici. Questo approccio diplomatico asimmetrico è una strategia consolidata: la detenzione di cittadini occidentali, di individui con doppia cittadinanza o di iraniani residenti all’estero viene spesso sfruttata come leva per negoziare concessioni politiche, economiche o diplomatiche.

I precedenti del regime di Khamenei

La “diplomazia degli ostaggi” non è una novità del regime di Khamenei: si inserisce in un modus operandi che ha assunto una dimensione concreta almeno dal 1979. Quell’anno la Rivoluzione islamica khomeinista e anti-occidentale investe l’Iran dello scià Reza Pahlavi, che trova rifugio negli Stati Uniti di Jimmy Carter. A novembre un gruppo di studenti iraniani sostenitori del nuovo regime sfonda i cancelli dell’ambasciata americana a Teheran, convinto dell’esistenza di un complotto politico per il ritorno dello scià sul trono, prendendo in ostaggio 52 persone per 444 lunghissimi giorni. Solo il 20 gennaio 1981 – giorno dell’insediamento di Ronald Reagan alla Casa Bianca – dopo infruttuose trattative, una disastrosa operazione delle forze speciali (la Eagle Claw) che costa la vita a 8 soldati americani, e la mediazione dell’Algeria, la crisi si risolve con la liberazione degli ostaggi e la rottura delle relazioni diplomatiche tra Washington e Teheran.

Da allora, detenere arbitrariamente individui ritenuti scomodi è diventata una vera e propria strategia politica per esercitare pressione sui governi occidentali e ottenere obiettivi di varia natura: dall’allentamento delle sanzioni economiche allo scambio di prigionieri, fino allo scongelamento di asset finanziari o a riparazioni economiche. Un caso emblematico è stato quello di Nazanin Zaghari-Ratcliffe, cittadina britannico-iraniana accusata di spionaggio, processata arbitrariamente e sottoposta a un duro regime carcerario in Iran dal 2016 al 2022. Il suo rilascio fu condizionato dal pagamento di un debito di 430 milioni di dollari da parte del governo britannico, risalente agli anni Settanta per un contratto di vendita di carri armati che non fu mai completato a causa della rivoluzione iraniana.

Insomma, quello che si delinea all’orizzonte è un gioco delle parti tragicamente più grande del destino individuale di Cecilia Sala o di Mohammad Abedini, che rende però drammaticamente evidenti gli interessi in gioco. Il caso, oltretutto, pone l’Italia di fronte a un dilemma: negoziare con Teheran per uno scambio di prigionieri, rischiando di incrinare i rapporti con Washington, o attenersi alle direttive americane, sacrificando temporaneamente il destino di una cittadina italiana? Il governo italiano ha dichiarato di avere “relazioni privilegiate” con l’Iran, ma i fatti – fino ad ora – sembrano raccontare un’altra storia. In questo contesto è essenziale che l’Italia, seguendo la sua lunga e prestigiosa tradizione diplomatica, si concentri sull’obiettivo prioritario: garantire che Sala possa tornare a casa sana e salva nel minor tempo possibile.