Il nuovo esecutivo
Diritti sociali e civili: così il governo Meloni li distruggerà
Non mi facevo illusioni sulle politiche che avrebbe fatto questo Governo e ho trovato conferma nelle dichiarazioni e nelle priorità indicate, anche nel rinominare alcuni ministeri. Le parole che si usano rivelano mondi. Rivelano mondi anche le parole non utilizzate, perché cancellano soggetti. Per questo vorrei esaminarne almeno alcune che sono state, penso consapevolmente, evitate dalla Presidente del Consiglio.
Diseguaglianze. Qualunque osservatore potrebbe raccontarci quanto sono cresciute le diseguaglianze: quelle sociali, quelle civili e quelle economiche. Maggiore povertà, minori salari, abitazioni che mancano, accesso all’istruzione superiore sempre più determinato dal reddito delle famiglie, sfruttamento in tanti lavori tradizionali come nelle piattaforme. Indicare il contrasto alle diseguaglianze poteva essere fatto individuando la redistribuzione innanzitutto fiscale come una priorità. Invece abbiamo sentito parlare di tregua fiscale, tassa piatta, e solo con gradualità, di cuneo fiscale, che torna ad essere in massima parte per le imprese. Chissà se Confindustria si ricorderà di aver detto, qualche mese addietro, che avrebbe dovuto essere fatto per i lavoratori?
Altri prevedibili grandi assenti sono state la Resistenza e la Liberazione, scomparse dal breve riassunto della storia d’Italia tracciato nelle dichiarazioni programmatiche. E ovviamente le donne. Perché nulla nel suo discorso programmatico ha indicato un impegno per le altre. Queste sono le poche parole dedicate al tema di genere: «…pensare alla responsabilità che ho nei confronti di tutte le donne che in questo momento affrontano difficoltà grandi ed ingiuste per affermare il proprio talento o più banalmente veder apprezzati i loro sacrifici quotidiani» e prosegue «ma penso anche con riverenza a coloro che hanno costruito con le assi del libero esempio la scala che consente a me oggi di salire e rompere il tetto di cristallo…».
Noi che ce l’abbiamo fatta e le altre, quelle che hanno osato e coloro che vogliono vedere apprezzati i loro sacrifici. Una visione del resto confermata anche nella pretesa imperiosa di essere definita “Il Presidente del Consiglio”, che al di là della lesione delle regole grammaticali della lingua italiana, è soprattutto rivelatrice del pensiero che considera il proprio un risultato che non rompe lo schema di potere: è l’esito di una competizione individuale a regole date e quindi perché cambiarle? Non si cerca una dimensione collettiva, non si riconosce sorellanza. Anche per questo sono scettica sul fatto che la simbolica rottura del tetto di cristallo possa determinare una migliore condizione per le altre. Certo, i simboli possono essere molto importanti, e potremmo dire con entusiasmo che ogni bambina o ragazza potrà sapere di poter ambire a quell’obiettivo.
Ma questa prima volta è già stata raggiunta in molti paesi del mondo, ben prima che da noi, con esiti molto diversificati sia per esempio dato sia per miglioramento delle condizioni collettive delle donne. Sappiamo quindi bene che il simbolo non è sufficiente. Fin troppo citare l’art.3 della Costituzione, ma necessario perché la celebrazione della prima donna Presidente del Consiglio verrà usata per tacere sul che fare per quelle difficoltà grandi ed ingiuste che le donne incontrano quotidianamente e, per inciso, non è certo il quoziente familiare che renderà le loro difficoltà meno ingiuste. Anche i lavoratori sono ignorati in quanto dimensione collettiva, ma certo abbiamo sentito: “i loro lavoratori” e “i propri lavoratori”, nella lunga parte dedicata alle imprese racchiudibile nella formula finale: «Il motto di questo Governo sarà: non disturbare chi vuole fare».
Nemmeno sfiorata dal dubbio che vi sia una questione salariale, ignorando il triste record italiano di diminuzione dei salari mentre crescevano negli altri paesi. Ignorando, nell’ossessiva aggressione al reddito di cittadinanza, che tra i poveri molti sono lavoratori, che il lavoro povero è dilagato negli anni. Che quel lavoro povero riguarda molto in particolare le donne che hanno più frequentemente lavoro a part time involontario, a termine, sottopagato. Per togliere ogni illusione ha comunque sottolineato che di salario minimo non si deve parlare, ma il reddito di cittadinanza verrà tolto a chi può lavorare, noterei la sottile distinzione tra può lavorare o ha un lavoro decente.
La povertà è presentata come una colpa e così anche la disoccupazione.
In termini di colpe individuali abbiamo sentito parlare molto – lì le parole non mancavano – liquidando in questo modo anche le difficoltà, le fragilità, le marginalità. Se avessimo dei dubbi che è in questo quadro che si determina la non universalità dei diritti, la pervicacia dedicata all’invocare l’autonomia differenziata aggiunge la diseguaglianza territoriale programmatica. Che i diritti non debbano essere universali sembra dato per scontato, forse non rientrano in quella supposta tanto invocata naturalità che sembra essere la bussola, la stessa probabilmente che porta alle più fantasiose declinazioni del chiuderemo i porti. I diritti sociali e civili, che in tante regioni sono messi quotidianamente in discussione, non vengono attaccati formalmente. Non c’è una data x che farà vedere a tutti e tutti che non abbiamo più fondamenti della nostra cittadinanza, li si sgretola attraverso la classificazione di chi è meritevole e va lasciato fare e chi ha colpa della sua condizione, chi non ha osato e non ha quindi raggiunto il traguardo. È questa consapevolezza sufficientemente diffusa?
Temo di no, tante e tanti con molta ragione ricordano le cose non fatte, le occasioni mancate, i continui governi da grande alleanza che rendevano tutto sfuocato, il non avere costruito alternative, si crogiolano nei rancori sul passato e trascurano il futuro, non affrontando la questione del che fare. Penso, sommessamente, che non abbiamo il tempo per questo, che le nostre energie debbano concentrarsi da un lato sulla pace – altra parola assente dalla dichiarazione della Presidente e poi liquidata nelle repliche – e dall’altro sulla costruzione di una sinistra plurale che rappresenti una alternativa capace di fare un’opposizione efficace e avanzare le sue proposte, rivendicando finalmente l’uscita dalle politiche neoliberiste.
Anche per questo sono convinta che non ci si possa fermare a temi come quello del nome adottato dalla Presidente del Consiglio. Non perché non ritengo siano importanti, ma perché non credo le nostre reazioni possano convincerla a cambiare linguaggio, e soprattutto pensiero, come l’uscita sui social “chiamatemi come volete, anche Giorgia”, dimostra. Chiamare con il solo nome le donne è un modo ampiamente utilizzato dall’informazione per non riconoscerne ruoli e professionalità, ma ricondurle a una dimensione “familiare” in cui ci si permette una confidenza che non sarebbe mai ammessa per gli uomini.
Penso sia utile invece decidere in quale postura ci metteremo noi, le altre. Per me sarà La Presidente, come l’ho definita in questo articolo, o Signora Presidente. Sono profondamente convinta dell’importanza del linguaggio sessuato; per questo continuerò ad utilizzarlo. Concentrarsi su questi temi rischia di assecondare la delusione di chi aveva manifestato aperture di credito, almeno nella forma del lasciamola lavorare, in questo illudendosi, nascondendosi la dura realtà del Governo più a destra dopo la Liberazione. Dobbiamo invece affrontare questa realtà e attrezzarci per fronteggiarla, cominciando proprio dal rispondere alle priorità indicate contrapponendovi le nostre, rivendicando e portando l’attenzione su ciò che le omissioni e i silenzi della Presidente hanno cercato di nascondere.
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