Nella sentenza della Corte costituzionale si trovano molti elementi per un dibattito maturo e adulto da fare in Parlamento: dall’autodeterminazione del paziente, intesa come principio non assoluto, alla protezione dei soggetti deboli come i minori; dall’obbligo di rimanere in un contesto medico all’interno di una struttura pubblica al parere del comitato etico necessario per prendere una decisione; dall’esclusione categorica che l’eutanasia sia ammessa come «atto medico» al divieto per le cliniche private, come quelle in Svizzera, di diventare i luoghi della dolce morte e centri per nuovi business.

LEGGI ANCHE – Esiste il diritto a vivere ma anche quello a morire: la via maestra della corte

La Corte non ha previsto l’obbligo di prestare assistenza al suicidio, invece ha affermato la libertà di scelta per il medico. L’obiezione di coscienza presupporrebbe un obbligo di prestare assistenza al suicidio. «La garanzia assicurata è più forte, ha precisato Cesare Mirabelli -, implica che non si è in presenza di una prestazione sanitaria dovuta e valorizza la deontologia professionale, che esclude che il medico compia atti che provochino la morte del paziente, anche se ne è richiesto». È dunque possibile trovare un punto di equilibrio tra la posizione libertaria, che considera il principio di autodeterminazione un assoluto, e la posizione statalistico-paternalista della legislazione vigente, che non include l’autodeterminazione del soggetto. Lo ribadisce la Corte costituzionale, che «guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi», e chiede al Parlamento di «proteggere il soggetto da decisioni in suo danno». In Parlamento sono depositate 10 proposte di legge: per quale ragione manca un vero dibattito parlamentare su questo tema? Qual è il valore primo del legislatore? Rafforzare una relazione, o esaltare (solo) l’autonomia dell’individuo? È sufficiente sostenere che la persona è sovrana della sua morte? Le leggi che disciplinano il fine vita possono essere regolate dall’utilitarismo, attento a tagliare le spese sanitarie, liberare dai sacrifici chi assiste, evitare la sofferenza? Oppure devono essere nutrite dalla cura della dignità umana e dalla pietas, che è responsabilità di accompagnare a morire con dignità? Il legislatore, senza sfidare la sentenza, è chiamato a rimanere nel solco della direzione tracciata dalla Corte e circoscrivere le clausole. Anche questo è riformismo: rispettare la volontà della Corte, che si è limitata a decidere su persone capaci di decidere autonomamente e che non intendono avvalersi delle cure palliative, ma non sono in grado di «togliersi la vita» autonomamente, come è stato il caso di Dj Fabo. Se il Parlamento sceglie di promuovere il principio di autodeterminazione – secondo il quale una persona può decidere di disporre della propria vita autonomamente –, deve anche garantire le cure necessarie perché si possa prendere una decisione serena, come l’aiuto concreto alla solitudine dei caregiver (le relazioni familiari che si prendono cura del paziente), l’assistenza domiciliare, con incluse le cure palliative, un assegno familiare congruo per le spese da sostenere e così via.

La soglia antropologica per incontrarsi fra tradizioni culturali diverse sul tema del fine vita rimane quella di riconciliare la personalizzazione della medicina e la sua umanizzazione con la tecnicizzazione della medicina stessa, in cui l’azione del «curare» (to cure) la malattia matura insieme al «prendersi cura» (to care) anche del mondo affettivo, relazionale, psicologico e spirituale del paziente. La scelta politica di fondo per il Parlamento è quella di ritornare alla fonte dell’esperienza dell’ammalato, della sua famiglia e del contesto sociale e relazionale, altrimenti i detriti portati alla foce continueranno a paralizzare il dibattito parlamentare a causa delle divisioni, delle fazioni ideologiche e degli interessi particolari dei singoli partiti e dei gruppi di lobby utilitaristiche pronte a speculare e che, come dei grandi corvi, invece di difendere la vita, sperano si imponga la cultura della morte. È di loro che dobbiamo temere. Anche per questo la Corte costituzionale ha chiesto al Parlamento di intervenire rapidamente, perché la sentenza rappresenta una fessura in una diga che potrebbe cedere da un momento all’altro e cancellare a livello culturale e medico, secondo l’antico principio de iure condendo, le restrittive condizioni giuridiche imposte dai giudici. Lo ribadiamo anche noi, nessuno sia lasciato solo.

Francesco Occhetta S.J.

Autore