La ferita dell’11 settembre, mai davvero rimarginata, con le torri franate in una nube scura di polvere e detriti e il tragico ricordo dei puntolini di carne volati nel vuoto, come ricorda il costituzionalista Bruce Ackerman, ha mutato geneticamente il modo stesso di percepire la sicurezza.

Non bastasse l’orrore del terrorismo, l’individuo è letteralmente assediato da paure, insondabili misteri, ancestrali fobie che riemergono nel cuore di una società sempre più veloce, caotica e tecnologicamente complessa: dalla salute al cambiamento climatico, dalla insicurezza sociale ai disastri economici, l’età dell’insicurezza, come la definirebbero Bauman e Beck, è per paradosso l’età che ha visto la maggiore crescita di forme, normative, culturali e tecniche, di dispositivi di sicurezza.

Il paradosso è solo apparente. Più la tecnologia impiegata è evoluta e articolata, più aumentano i fattori potenzialmente inconoscibili di pericolo e di insicurezza. Non casualmente da alcuni anni si suole parlare di ‘rischio da ignoto tecnologico’.
Come tutte le scienze umane, anche il diritto non è rimasto indifferente a questo processo. E se, come rilevavamo a proposito di Ackerman, il diritto della sicurezza e alla sicurezza finisce con il serrare in una morsa la libertà, facendo prevalere il principio di autorità, la paura che circonda l’inconoscibile e l’idea che qualcosa, qualcosa di terribile possa accadere, porta i formanti del diritto stesso, e la sua funzione profonda, a mutare.

Da strumento di regolazione dell’ordinato vivere civile, il diritto si trasforma in un meccanismo di anticipazione quasi oracolare. Il principio di precauzione, affermatosi a partire dagli anni novanta nei consessi informali e formali dell’ambientalismo mondiale, e poi sussunto nel diritto ambientale euro-unitario, prima, e in quello sanitario e tecnologico poi, è una esemplificazione perfetta di un diritto della intuizione e della anticipazione.

La precauzione non ambisce infatti a, semplicemente, prevenire il dispiegarsi di un dato evento potenzialmente lesivo, ma inferisce la necessità di sterilizzazione della stessa possibilità che qualcosa accada.

A differenza della prevenzione, infatti, con la quale si vuole prevenire qualcosa di scientificamente accertato come dannoso, nella precauzione non esiste un dato scientifico certo che attesti la dannosità di una situazione che potrebbe occorrere. Per questo, si tratta di una modulazione metagiuridica, dalle forti venature culturali e psicologiche. Come ogni strumento teso alla anticipazione, infatti, esso non può risiedere solo nella norma ma a monte deve situarsi nell’intimo dell’individuo, per generare quell’anticipazione essenziale e consistente nel non fare.

Sicurezza assoluta è non fare nulla. Non correre alcun rischio. Non esporsi ad alcun pericolo, per quanto velato, larvato e ipotetico esso possa essere. E per ottenere un simile risultato l’escogitare architetture di sanzioni e di punizioni è relativo – serve invece qualcosa di più radicale. Emerge quindi il ‘diritto della paura’, un diritto feroce, moralizzatore, che si innerva nel cuore e nelle menti dei cittadini disponendoli di buon grado a rinunciare, nel nome della sicurezza, a quote sempre crescenti di libertà e di autodeterminazione.

‘Il diritto della paura’, così è titolato un bel saggio di Cass R. Sunstein, edito in Italia da Il Mulino, una acuta riflessione su come il principio di precauzione, e la sua giuridificazione, tra scienze comportamentali, nudge e modelli sanzionatori, si sia atteggiato a forma tiranna per moralizzare i costumi sociali. Sunstein ricorda ad esempio come le grandi campagne di prevenzione per le malattie sessualmente trasmissibili, a partire dall’AIDS, si siano presentate sul lungo periodo come inviti a eticizzare la propria condotta sessuale, fino al limite della astinenza come valore.

Non può quindi stupire sentir parlare oggi di eco-ansia e di terrori legati al cambiamento climatico, è il medesimo meccanismo in azione che tenta di regolare i comportamenti umani attraverso la paura.