Disastro di Fukushima, perché dopo 10 anni il fuoco non si estingue

È difficile avere l’esatta consapevolezza di cosa sia un disastro nucleare. Un disastro nucleare non somiglia a un incidente automobilistico. E non mi riferisco tanto alla natura, alle dimensioni o alla dinamica dell’incidente, quanto alla durata delle sue conseguenze.

Una volta che si è consumato un incidente automobilistico – per quanto possa essere esteso e drammatico -, si inviano le squadre di pronto intervento, si soccorrono i feriti, si rimuovono i veicoli coinvolti, si procede alla conta delle vittime e dei danni ed eventualmente si ripara il tratto di strada in cui è avvenuto. A questo punto, almeno sotto l’aspetto tecnico, l’incidente si dichiara concluso. Si dovranno accertare dinamiche, le responsabilità e l’entità dei risarcimenti ma, passando sul luogo dell’incidente, nessuno si accorgerà di quanto accaduto.

Un disastro nucleare, al contrario, non finisce. L’incidente è solo l’inizio di una catena ininterrotta di eventi in cui legioni, letteralmente legioni, di tecnici, operai, vigili del fuoco, ingegneri, esperti di controllo e sicurezza, si avvicendano sul luogo della catastrofe. Per anni. I grandi disastri nucleari sono tre. Nel 1979, a Three Mile Island, Pennsylvania (Usa); nel 1986, a Chernobyl in Bielorussia; nel 2011 a Fukushima, in Giappone. L’11 marzo del 2011, esattamente dieci anni fa. Il primo dei tre ebbe conseguenze più limitate, ma degli altri due ci ricordiamo tuttora, anche a 35 anni di distanza. Cosa accomuna questi tre disastri? La fusione, parziale a Three Mile Island e Chernobyl, del nocciolo di un reattore. Un reattore nucleare (a fissione, cioè del tipo usato nella totalità delle centrali nucleari in funzione adesso e in passato) è un blocco di metallo radioattivo, solitamente Uranio, suddiviso in barre, all’interno del quale i nuclei degli atomi esplodono, surriscaldando il metallo. Spiegare come e perché i nuclei esplodono richiederebbe uno spazio ben maggiore di questo articolo, ma per la comprensione del processo basta dire che alcuni atomi sono instabili per loro natura.

La loro parte centrale, il nucleo appunto, è come una piccola bomba a orologeria, col timer regolato a una certa ora, ma con un meccanismo di innesco che può far esplodere l’ordigno in anticipo o in ritardo rispetto all’ora impostata. Quindi le esplosioni sono come uno spettacolo pirotecnico fissato a una determinata ora, ma che può cominciare in anticipo o in ritardo, e prosegue per una certa durata, nella quale si succedono scoppi a un ritmo irregolare. Le esplosioni dei nuclei degli atomi generano quindi calore, simile a quello prodotto dalla normale combustione, ma con una caratteristica diversa: mentre la combustione convenzionale è il frutto di una reazione chimica tra il combustibile e l’ossigeno dell’aria, il fuoco nucleare è interno alla materia e non richiede l’intervento di alcun agente esterno. Quindi non si può estinguere soffocandolo, cioè privandolo dell’ossigeno, o raffreddandolo al di sotto della temperatura di innesco della reazione, come quando si agita un fiammifero per spegnerlo.

Il modo per tenere sotto controllo il nocciolo del reattore nucleare consiste nel separare le barre con un materiale che non consenta loro di comunicare, perché altrimenti la reazione di una barra amplifica la reazione dell’altra, e di raffreddare il sistema, non per spegnerlo, ma per evitare che il metallo si scaldi fino al punto di fusione. Questo liquido di raffreddamento, una volta raggiunta un’alta temperatura a contatto del nocciolo, si utilizza per azionare delle turbine e produrre energia elettrica. Se per qualche caso fortuito il sistema di controllo si guasta, il metallo può surriscaldarsi fino a fondere, trasformandosi in un magma radioattivo e corrosivo, teoricamente capace di divorare le strutture di contenimento. Il film Sindrome Cinese, sempre del 1979, allude proprio a questa possibilità: la massa di metallo fuso sarebbe potuta colare nel terreno, aprirsi un varco nelle profondità della terra, raggiungere il centro del pianeta e quindi riemergere dalla parte opposta.

Anche prescindendo dal fatto che la Cina non è agli antipodi degli Stati Uniti, questa ipotesi sulla dinamica del nocciolo fuso è piuttosto fantasiosa: il nucleo fluido, penetrando nel sottosuolo non resterebbe una massa compatta, ma tenderebbe a spandersi e disperdersi. Tuttavia, un nocciolo fuso, per quanto confinato in un guscio di cemento armato, è pur sempre una bruttissima gatta da pelare. L’11 marzo 2011, un maremoto al largo delle coste atlantiche giapponesi produsse uno Tsunami che superò il baluardo protettivo della centrale nucleare di Fukushima, sulla costa nord-orientale dell’isola di Honshu. Evidentemente, l’ingegnere che lo aveva progettato non conosceva l’italiano, e tanto meno quello trecentesco. Aveva perciò ignorato il monito di Dante «…i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia / temendo il fiotto che in ver’ lor s’avventa / fanno lo schermo perché il mar si fùggia» (Inf. XV, 4-6). Lo schermo, cioè la barriera, deve essere abbastanza alto da mettere in fuga il mare, ovvero da respingerlo. Invece il fiotto dello Tsunami oltrepassò lo sbarramento e si avventò sui sistemi di refrigerazione dei reattori, mettendoli fuori uso. Le barre di Uranio di alcuni reattori si surriscaldarono, producendo esplosioni che sparsero pulviscolo radioattivo in un raggio di 30 chilometri. Superata la fase parossistica, la disseminazione di polveri cessò. Ma i noccioli di alcuni reattori, ormai irrimediabilmente fusi, continuarono a bollire.

Ed eccoci alla situazione di oggi. Come premesso, il fuoco nucleare non si può estinguere, bisogna quindi aspettare che si esaurisca da solo, ovvero che i nuclei degli atomi siano scoppiati tutti. Un po’ come i popcorn: capiamo che sono pronti quando non sentiamo più crepitare la pentola in cui avevamo messo i chicchi di mais. Fino a quel momento la massa incandescente va tenuta sotto controllo versandoci sopra acqua fresca. La quale acqua, a contatto del materiale, si carica di sostanze radioattive, diventa a sua volta radioattiva e va quindi immagazzinata in appositi recipienti. Siccome ogni settimana bisogna rovesciare sopra i reattori incandescenti approssimativamente il contenuto di una piscina olimpionica, in questi dieci anni si è accumulata la bellezza di oltre 500 piscine, cioè un milione di tonnellate di acqua radioattiva che, a causa di allagamenti e infiltrazioni, stanno contaminando le falde sotterranee. A questo ritmo, si raggiungerà il limite della capacità di accumulo dell’acqua di raffreddamento tra circa un anno.

I tecnici della Tepco, la società che gestisce la centrale, dopo essersi lungamente consultati, macerati nel dubbio e aver vagliato tutte le possibili opzioni, hanno infine sentenziato sōne kekkyoku wa anata, no shūjin datta! Non credo ci sia da aggiungere altro. Più eloquente di così si muore… L’intenzione è di procedere, dopo una sommaria purificazione delle acque per rimuovere quello che è possibile filtrare, a sversarle un po’ alla volta nel braccio di oceano di fronte alla centrale. In pratica, come mettere la polvere sotto il tappeto. Solo che questa è polvere radioattiva. Le ripercussioni sono facilmente immaginabili. La pesca sotto costa è una delle principali fonti di approvvigionamento alimentare, in un Paese che vanta il primato di longevità grazie alla dieta prevalente a base di pesce. In un recente sondaggio, i consumatori del mercato interno hanno dichiarato a larga maggioranza che in futuro faranno bene attenzione a leggere in etichetta la zona di provenienza del pescato, scartando accuratamente quello proveniente dalla Prefettura di Fukushima.

D’altra parte, le autorità sanitarie, prima di dichiarare salubre un pesce che nuota in acque contenenti stronzio-90, iodio-129, rutenio-106, carbonio-14 (e molti altri membri della famiglia degli elementi chimici radioattivi), ci vorranno riflettere bene. Certo, l’oceano è grande e l’acqua, se versata un po’ alla volta, tenderà a diluirsi, ma che effetto vi fa vedere qualcuno che pesca in prossimità dello sbocco a mare di una fogna?

Chi pensava che, una volta decontaminata la zona di rispetto intorno alla centrale, ripuliti meticolosamente gli impianti, rimossi i residui delle barre radioattive, bonificate le strutture di contenimento ed eventualmente chiusa la centrale, il problema sarebbe stato risolto, si sbagliava. Un disastro nucleare non è come un incidente stradale. Un disastro nucleare non si sa quando finisce. E, a distanza di dieci anni, costringe solerti e zelanti tecnici nucleari – che mai avrebbero voluto ridursi a tanto – ad affermare per disperazione “sōne kekkyoku wa anata, no shūjin datta”: a mali estremi, estremi rimedi…