C’è chi ha scritto che con Delon è morto un pezzo di Novecento.
Credo sia vero nella misura in cui si riflette sulla corporeità del Novecento e soprattutto del maschio del Novecento: prigioniero in una dimensione del virile ormai così sorpassata da farne apparire anche i campioni migliori come espressione di un reducismo malinconico.
E’ stato un lungo addio quello di Delon, un congedo distribuito in lustri di oblio interrotti da fugaci ritorni alla ribalta, quasi sempre sull’onda di qualche dichiarazione sugli amori, sul tempo, sulla morte; confessioni in cui in realtà non c’era nulla da confessare, se non la sua sincera urgenza di sentirsi vivo.

I divi e la bellezza

Fu sincero quando a Cannes nel 2019 disse che era dura andarsene, ma in fondo se ne era già andato. La bellezza era sfiorita da tempo, come da tempo aveva smesso di recitare (l’ultimo film è del 2000, fatta eccezione per un dimenticabile Asterix alle Olimpiadi del 2008 in cui prestò il volto a Giulio Cesare).
In fin dei conti i divi sono quel che il pubblico vuole che siano, e senza la bellezza – la sua bellezza – Delon non poteva più essere Delon.
Probabilmente ha cercato di essere altro, manifestandosi in modo spesso brutale e con un desiderio a tratti incontenibile di provocazione (sull’omosessualità e altri temi di attualità politica), andando oltre e soprattutto contro l’idea di perfezione ed armonia di cui si permeava la sua immagine fisica.

Il superuomo Delon

Ora che è morto le polemiche evaporano e se ne rievocano i tanti ruoli e personaggi, e il rapporto con il mentore Visconti che gli diede particolare prestigio.
C’è chi giustamente ricorda l’interpretazione (probabilmente l’apice della sua carriera) ne “La prima notte di quiete” di Zurlini, che oltre a essere un grande film è forse quello in cui il superuomo Delon viene messo più da parte, lasciando spazio alla fragilità e alla sconfitta certa del suo personaggio.
Ma al di là di tutto questo, ciò che di lui più si celebra oggi – come già fu in vita – è appunto la bellezza assoluta, smodata, straripante. Quasi invadente.

Divi decaduti e morti in attività

Una bellezza che appassiona anche le giovani generazioni, e che rimane un canone estetico perfetto per i reel di Instagram e per le suggestioni che esprimono.
Guardando più in generale al tema della corporeità, esso chiaramente non ha riguardato il solo Delon.
Molti divi novecenteschi, anche meno belli o magnetici di lui, non riuscirono ad affrancarsi dal “bisogno” del corpo.
Cito ad esempio due giganti di Hollywood: Montgomery Clift, che non accettò mai il suo “nuovo” volto, deturpato da un incidente d’auto (anche se la sua migliore interpretazione, in “Vincitori e Vinti” di Stanley Kramer, viene addirittura esaltata da quel viso trasfigurato), e John Wayne, che ha continuato a fare il duro e menare cazzotti, malgrado la magrezza e gli altri segni inesorabili della malattia.
Due divi fisicamente decaduti, eppure entrambi morti – se così si può dire – in attività.
Delon, invece, un po’ come il suo amico e rivale Belmondo, ha attraversato il vuoto dell’abbandono, del ritiro dal palcoscenico, dello svanire progressivo – appunto – di quel corpo così “indispensabile”.

Venendo poi alla scena italiana, vale la pena ricordare un grande personaggio della tv nazionale, di cui proprio in questi giorni (13 agosto) ricorreva il quarantesimo anniversario della morte: Alberto Lupo.
A dire il vero quest’anno cade anche il centenario della nascita di Lupo, e persino il sessantesimo anniversario de “La Cittadella” (1964), probabilmente lo sceneggiato Rai più amato di sempre, di cui il nostro fu protagonista nei panni del dottor Andrew Manson, medico combattuto tra ambizione ed idealismo.
Ebbene, tra la fine degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, Lupo fu il volto più importante della televisione italiana. Quasi tutti i programmi di maggior successo lo vedevano al timone, non c’era giornale o rivista che non lo intervistasse o citasse, e per certi versi pure lui fu un sex symbol, amato dalle donne e ammirato dal pubblico maschile per quel tratto elegantemente virile in cui allora tutti avrebbero voluto riconoscersi.

Anche Lupo era un corporeo, un uomo di scena di grande presenza fisica, che proprio nel mezzo del massimo successo personale (1977) fu duramente colpito dal destino.
Una trombosi cerebrale gli procurò una vasta paralisi, costringendolo a una lunga degenza e ad una ancor più dolorosa e poi definitiva lontananza dalle scene, fino alla morte prematura.
In una delle ultime interviste, con coraggiosa lucidità, confessò quanto dolore gli portasse il confronto fisico con il sé passato. Disse che il male patito non lo aveva fatto diventare più buono, ma di sentirsi anzi, più amaro e incattivito. Impossibilitato a lavorare, aggiunse pure, con commovente pudore, di sentirsi in qualche modo meno “uomo”.
Forse per questo oggi sarebbe impallinato da certi implacabili esegeti woke, ma trattandosi di un pezzo di Novecento già da tempo – purtroppo – scomparso nell’orizzonte della storia, almeno questo fastidio gli sarà risparmiato.

Gabriele Molinari

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