I Don Abbondio e la fede
Don Gennaro Pagano bacchetta il pg Riello: “Chiesa è aperta a tutti: guai a dividere il mondo in buoni e cattivi”
«Non credo ai preti “anticamorra”. La categoria anti non è nel Vangelo. Io credo agli uomini e alle donne di giustizia, ai preti e ai laici che annunciano il Vangelo della giustizia e della pace, condannando senza riserve il male e cercando di salvare quante più persone possibili da esso». A parlare è Don Gennaro Pagano, cappellano di Nisida e da sempre al fianco dei “figli sfortunati” di questa città con la sua fondazione Regina Pacis.
Don Gennaro, il procuratore Riello pochi giorni fa nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario ha affermato: “Anche i parroci devono essere uomini di fegato. Via i don Abbondio dalle chiese. Il camorrista non può entrare in chiesa con in mano una pistola e nell’altra il rosario”. Cosa pensa?
«Le parole del procuratore Riello sono parole senz’altro importanti. Mi piacerebbe estenderle all’intera comunità dei discepoli di Cristo, non solo ai preti. Nessun “don Abbondio” può seguire davvero il Vangelo, perché la sequela richiede coraggio, impegno, sporcarsi le mani, osare: Paolo VI diceva che è per i forti, per coloro che hanno il coraggio di portare la croce. Vede, in questo senso non c’è spazio per i don Abbondio nella chiesa, tra i preti, tra i laici. E io direi che neanche tra la società civile. Sicuramente tra i preti e le persone di chiesa di don Abbondio ce ne sono o ce ne sono stati ma credo che ogni volta che se ne denuncia l’esistenza occorrerebbe aggiungere per amor di verità che spesso i presbiteri e le loro comunità cristiane sono per interi quartieri o comuni gli unici avamposti di legalità, di giustizia, di carità e inclusione. Forse la denuncia del procuratore Riello necessitava di quest’aggiunta per evitare il fraintendimento della generalizzazione. Ecco, scherzando, direi che ha peccato d’omissione».
Ma in che modo voi parroci dovreste distinguere un “camorrista” da una persona che non lo è?
«Ogni prete è chiamato ad annunciare il Vangelo della giustizia, invitando a conversione sè stesso e gli altri, sempre e comunque. E la parola di giustizia va annunciata sempre e comunque, con coraggio, a tutti. Soprattutto a coloro che sappiamo essere nel sistema mortifero delle mafie, della camorra. Tuttavia, questa parola deve essere non una parola soltanto di condanna, ma deve aprire a chi vive nel male della camorra possibilità e spazi di conversione, invitandolo a riconciliarsi con la propria coscienza, con Dio, pagando i debiti con la giustizia terrena. Spesso in alcuni territori ci sono persone note, altre meno. Ma allargherei il cerchio: lo stesso vale per i politici corrotti, per gli evasori fiscali, per tutti i colletti bianchi collusi come per chi, pur potendo intervenire, si gira dall’altra parte. Io non credo alle categorie di preti. Non credo ai preti “anticamorra”. La categoria anti non è nel Vangelo. Io credo agli uomini e alle donne di giustizia, ai preti e ai laici che annunciano il Vangelo della giustizia e della pace, condannando senza riserve il male e cercando di salvare quante più persone possibili da esso».
Don Gennaro, nel dire: “Bisogna impedire ai camorristi di entrare in chiesa” non si rischia di essere poco garantisti e molto giustizialisti?
«Credo che questo non sarebbe giusto, non sarebbe evangelico. Una cosa è consentire ai camorristi di entrare in chiesa facendoli credere in diritto di poterlo fare senza avvertire l’incoerenza della loro preghiera o della vita con la loro fede. Altro sarebbe precludere loro le porte: quante revisioni di vita, se non vere e proprie conversioni, possono nascere ai piedi di un crocifisso o nell’ascoltare una parola di Vangelo. Se applicassimo la legge dell’ingresso riservato ai puri, in chiesa forse non potrebbe entrare più nessuno, magari neanche il prete. Non avrebbe neanche più senso un servizio come quello che svolgo a Nisida. Attenzione a dividere il mondo in una lavagna in cui ci si divide tra buoni e cattivi, magari autoassolvendoci. Ci aiuta De Andrè nel ricordarci che: anche se ci crediamo assolti siamo per sempre coinvolti».
Crede davvero che impedire a una persona che conduce una vita fatta di azioni illegali di entrare in chiesa, possa essere la soluzione?
«Vede, io voglio bene ai figli dei camorristi che spesso incontro perché non hanno scelto loro la famiglia in cui nascere. Invoco umana comprensione per coloro che hanno sbagliato, a volte in maniera incomprensibile e tragica, perché nessuno di noi può sapere cosa sarebbe accaduto se sul loro tragitto se ci fossero stati altri incontri e altri volti. La misericordia, la comprensione, il credere fortemente che è possibile educare e rieducare un ragazzo ma anche un uomo, non è buonismo o romantica filantropia. E non è contrario al sentimento di giustizia che con e per ogni vittima condivido e provo. Per me che sono prete è fedeltà al Vangelo. Per me, cittadino italiano, è pratica della Costituzione».
Invece di chiudere le porte della chiesa a chi sbaglia, cosa potremmo fare?
«Quando per proteggere il territorio dalla criminalità si invoca solamente la “repressione”, l’esercito, occorrerebbe domandarsi quanto e come investiamo in prevenzione, adoperandosi per la prevenzione e il miglioramento della qualità della vita delle tante periferie della nostra metropoli. Dove scegliere a volte e ad alcuni può apparire impossibile. Quante braccia potremmo strappare alla malavita in questo modo! Credo che le parole di don Mimmo Battaglia, che da quando è arrivato con grande coraggio ha sempre stigmatizzato la camorra e la corruzione come male assoluto, sono uno sprone per l’intera città a combattere il sistema di morte della camorra ma al contempo indicano nell’educazione e nel welfare una via imprescindibile per farlo. Non si sceglie dove nascere. Nessun bambino può farlo. Ma la società tutta con lo Stato può scegliere di non abbandonare nessun ragazzo al caso, intervenendo subito per strapparlo alla predestinazione a cui apparentemente è condannato».
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