Molto dibattito sulle televisioni americane: a quanto pare lo zazzeruto è in caduta libera e di conseguenza il suo unico e solo antagonista, Joe Biden, è in salita. Ma chi è questo Biden? L’avete mai sentito? Andate a spulciare fra Cnn e Fox e anche sull’imparziale (ma in realtà filo dem) BBC britannica per vedere chi è e che cosa ha fatto colui che potrebbe ritrovarsi da gennaio sul trono dell’Impero. Biden è accusato da tutti, amici e nemici, di essere scialbo. Di aver passato i mesi del virus chiuso in casa senza fare sortite e di aver detto lo strettissimo indispensabile per ribattere ai tweet dello zazzeruto. Quel che si sa è che è stato un’ombra invisibile ma bianca del primo presidente nero, di far parte del circolo dei Clinton che è un po’ come il circolo degli Scipioni nella Roma repubblicana – democratici, i fratelli Gracchi un po’ kennediani, Cesare ma anche Bruto, le riforme sociali – ma non si segnala per alcun sogno, vetta, mira, obiettivi. Ricordate Al Gore, il vice di Clinton che poi fallì? Era un motore di ecologismo, un riformatore del pianeta, era un vero partner. Conservo ancora un mug da caffè di quella campagna con Bill e Al che si abbracciano “Clinton Gore, four days more!”.

Ma Obama e Biden? Sconosciuti al mittente. Si sa che Biden padre, Joe, e Biden figlio, Hunter, si trasferirono in Ucraina per vendere armi e furono accusati di aver usato il “qui pro quo”, che in inglese vuol dire “do ut des”, cioè mazzette in cambio di favori. Poi sappiamo che Trump ha cercato di premere sul presidente ucraino per farsi dare le carte della procura di Kiev da usare per tagliare le gambe all’avversario e che la speaker democratica del Congresso, Nancy Pelosi, ha per questo motivo chiesto e ottenuto l’impeachment di Trump, poi risolto in una bolla di sapone e che il Senato si strinse intorno al Presidente. Ma intanto sono accadute in questi giorni alcune cose rilevanti che potrebbero, in via del tutto ipotetica, far tornare il gioco nelle mani dello zazzeruto. L’economia è ripartita a razzo, l’occupazione anche, e il dibattito politico filosofico – che da noi in Italia è assente da decenni – è ripreso con quella forza garbata e anglosassone che dipende dalla passione inglese per le questioni di principio.

Fra le cose di principio ci mettiamo anche il discorso deliberatamente sottovoce e sottotono, ma fermissimo, di Trump davanti alla montagna scolpita con i volti dei primi presidenti (ma c’è anche Theodor Roosevelt, zio di Delano, quello che sbarcò a Cuba a cavallo con la sciabola sguainata). Questo strano presidente odiatissimo in tutto il mondo ha una sua oratoria bisbigliata, che segue il precetto del vecchio Roosevelt secondo cui non si deve mai gridare ma avere un’arma a portata di mano. Ha parlato sussurrando senza enfasi, salvo quando ha detto che mai nessuno tirerà giù le statue di Washington e degli altri padri fondatori, di cui ha mimato i brividi del mitico passaggio fra i ghiacci del Delaware. Applausi osannanti.Qualche giorno fa a Parigi Le Monde pubblicava un reportage sull’America del profondo Sud partendo dallo slogan visto su una maglietta: “La bandiera Confederata ti mette a disagio? Se è così, studia la storia americana”. Messaggio di sottotesto: non date Trump per morto, perché non è morta l’America che lo ha eletto.

Fox News scatena tutti i neri e le intellettuali nere e gli asiatici americani come Dinesh D’Souza per sostenere in extremis la candidatura di The Donald che sembra colare a picco da quando al Covid sono seguite le settimane delle rivolte per la morte di George Floyd e la caccia alle statue. Il giorno della svolta è stato giovedì scorso quando Trump ha afferrato i microfoni dopo aver visto la sbalorditiva rimonta dell’economia, la sua vera arma totale: cinque milioni di posti di lavoro appena recuperati, la borsa di Wall Street che volava di nuovo e trascinava il mondo. È ancora possibile che ce la faccia? Tutto il mondo dice di no, ma forse è bene ricordare un paio di segmenti del dna americano. Non è Trump che ha rimesso in moto l’America azzoppata ma è il sistema americano che si rimette in piedi da solo, a patto che la politica abbassi le tasse e si tenga alla larga, che è il precetto di Trump. Non sono affari suoi. Quando vivevo negli Stati Uniti ho visto la gente piangere quando trovava la lettera di licenziamento. Ma la sofferenza era breve: il lavoratore americano, diversamente da quello di Taranto, sa che se la sua Ilva chiude, domani ne riapre un’altra. E giovedì Trump poteva dire: «Oggi gli afroamericani hanno raggiunto il nuovo record dei posti di lavoro insieme alle donne e ai latinoamericani».

Ed erano solo i dati di giugno. Dunque, anche le borse cinesi di Shanghai e Hong Kong hanno tirato il fiato. Contro la Cina Trump fa soltanto un pochino di guerra, giusto il minimo verbale sindacale. Non vuole guerre e ha cacciato John Bolton, suo ex consigliere speciale, perché quello gli avrebbe voluto far invadere il Venezuela, la Siria, l’Iran e anche la Cina. Poi, è passato dalla parte di Joe Biden. La politica di Trump con la Cina di queste ultime settimane è stata di pura facciata: bacchettate per il golpe a Hong Kong ma l’America ringhia soltanto per il Mar Cinese del Sud, dove passano i quattro quinti dei commerci mondiali. L’America però ha bisogno del partner cinese tanto quanto quello ha bisogno dell’America, mentre ai bordi del campo si scalda l’India come nuovo partner privilegiato, ed è già guerra di frontiera fra India e Cina. Accade dunque questo elemento importante della storia americana di cui Trump è protagonista: gli Stati Uniti sono armatissimi come nessun altro Paese del mondo e spendono moltissimo per mantenere questo primato (che non avevano con Obama) ma senza la minima intenzione o tentazione di usare le armi per una guerra. Gli Stati Uniti di Trump mettono in atto la lezione di Pearl Harbour, che molti hanno dimenticato ma che un formidabile libro di Maury Klein scalda nei think-tank americani: A Call to Arms: Mobilizing America for World War II.

Un libro che rende chiaro un punto. Finché i giapponesi non attaccarono gli Stati Uniti a Pearl Harbor nel dicembre del 1941, gli americani non avevano la minima intenzione di entrare in guerra. Winston Churchill da Londra piangeva e implorava Roosevelt ma otteneva soltanto generosi convogli di aiuti. Furono i giapponesi ad attaccare alle Hawaii e fu Hitler a dichiarare la guerra agli Stati Uniti. Scrive Klein: «Se i giapponesi avessero lasciato gli americani bollire nel loro brodo pacifista e isolazionista, si sarebbero salvati». L’America del 1941 era isolazionista come oggi con un elettorato stufo delle beghe europee quanto lo è Trump. Roosevelt pensava solo alla sua rielezione e tutti gli irlandesi d’America odiavano gli inglesi. L’America era entrata in depressione e poi in recessione dal 1929. Sì, dice Klein, c’era stato il New Deal statalista grazie al quale, aggiungiamo noi, e pittori di strada come Mark Rotkho e Jackson Pollock diventarono delle star della cultura perché sostenuti dai fondi federali per artisti sfigati.

Ma fin quando l’America non entrò in guerra, l’economia era quasi morta. L’entrata in guerra segnò la statalizzazione dell’industria e dell’agricoltura. E ritrovò la sua unità politica. I lavoratori non erano tornati più in fabbrica e i customers non compravano. Di colpo ci fu un unico produttore: lo Stato federale. E un unico acquirente: lo Stato federale. Roosevelt aveva preparato l’America a vincere la guerra sulle catene di montaggio degli aerei, dei carri, dei sottomarini, delle portaerei, dei servizi sanitari, dei servizi di nutrizione e cura dei soldati (le famose caramelle col buco “Life Savers”, salvavita, erano un cocktail di antibiotici e vitamine) da protagonisti dopo la breve comparsata nel 1918 quando gli yankees erano sbarcati per la prima volta in Europa derisi come contadini ignoranti. Allora, Roosevelt aveva un piano strategico elementare: radunare in Inghilterra una invincibile armata, sbarcare a Calais e proseguire fino a Berlino travolgendo tutto e tutti. Poi, schiacciare l’impero giapponese e tornare a casa felici di aver riaperto tutte le vie del commercio. Gli inglesi però non la finivano mai di fare i capricci per rimettere insieme i cocci del loro impero – che Churchill pronunciava “empaaaa…” pretendendo una campagna d’Africa e una d’invasione in Italia, ma nell’insieme le cose andarono come era previsto che andassero.

Alla fine, tutti gli imperi erano morti o moribondi – quello inglese insieme a quello francese – e restavano in piedi soltanto Usa e Urss a vedersela fino al Muro di Berlino, quando l’America vinse l’ultimo giro e rimase sola, scoprendo di aver perso troppe vite e troppi miliardi per fare da mamma e da educatrice a tutti i bambini cattivi come la Germania. Ma l’America aveva scoperto anche – e questo riguarda l’oggi – che l’economia militare di guerra era l’unica via d’uscita garantita dalla crisi. Da ogni crisi. E che un fortissimo armamento è una discreta polizza di assicurazione per la pace, ma prima di tutto una fonte di guadagno e di promozione scientifica. Trump ha aggiunto la corsa nello spazio affidata agli imprenditori privati. Molto americano, grande circolo di investimenti, speranze e profitti.

Su questa linea il governo di Donald Trump è in perfetta linea con il suo malinteso motto “America First” che non vuol dire “America uber Alles”, alla maniera tedesca, ma: svezzatevi, non contate più su di noi per i vostri maledetti pasticci. Trump non fa la voce grossa con Pechino, non con Mosca, poco col venezuelano Maduro, irrita la Merkel. Ma l’hard core del suo business è: abbandonare i campi di battaglia, riportare a casa i soldati (salvo alcuni cunei strategici come quello in Polonia e nei Paesi baltici) chiarendo che “non ci faremo umiliare da nessuno”. Non è una novità genetica americana. Forse ricorderete John Wayne dell’Americano tranquillo, storia esemplare del paziente cowboy che ha promesso di non mollare più un pugno, ma che se lo costringono, sarà a lui a vincere. Mancano circa 120 giorni all’Election Day, oggi Trump è l’underdog, ma sono aperte le scommesse.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.