In Campania lavora solo il 29,1% delle donne
Donne senza lavoro, in Campania meno di una su tre ha una occupazione: colpa del welfare familistico…
La condizione economica che emerge dal Dossier evidenzia sperequazioni di genere, purtroppo, già note e persistenti del nostro mercato del lavoro. E la pandemia non ha fatto che peggiorare questa situazione, le donne che alla fine del 2020 avevano perso il lavoro erano il doppio degli uomini. Ad aggravare ulteriormente questa fotografia sono i dati pubblicati dal Dipartimento della Ragioneria dello Stato che evidenziano che dietro quella percentuale del 49,4 di occupazione femminile registrata in Italia (mai così bassa dal 2013) solo una donna su tre ha un lavoro regolarmente retribuito.
Un fenomeno assai più grave, a mio modesto avviso, se si tiene conto di una persistente contrazione dell’occupazione manifatturiera, degli ultimi anni, a vantaggio di quella del terzo settore, del terziario, avanzato e dei servizi. Settori, dove come noto, si registra una maggiore presenza di donne. È evidente quindi che bisogna smetterla di affrontare la questione della scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro prevalentemente o soltanto dal punto di vista sociale, ovvero per il raggiungimento di maggiore equità e benessere. L’obiettivo da raggiungere è ben più ambizioso ed il tema va affrontato in termini di competitività e di performance economica dell’intero sistema Paese, soprattutto alla luce di evidenti divari territoriali che, nel Mezzogiorno, come per la Campania, fanno registrare tassi di occupazione femminile nettamente inferiori a quelli nazionale ed europei. Divari territoriali che persistono perché ancora oggi il lavoro di cura e la maternità restano un fatto privato che le donne devono affrontare da sole! Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) il lavoro non retribuito di assistenza alle persone e di cura dei figli costituisce il principale ostacolo alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Soprattutto al Sud.
Le donne, si fanno carico del 75% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura dei figli. Un sistema di welfare familistico che qui da noi ha letteralmente supplito all’iniziativa istituzionale e che fa registrare una scarsa offerta di servizi socioeducativi per la prima infanzia e di servizi di cura anche mal distribuita, che non consente alle nostre donne di partecipare attivamente alla economia. Le ragioni di questa endemica carenza sono diverse, dalla assenza di programmazione dei servizi che ha caratterizzato le pregresse stagioni politiche locali, alla più recente carenza di risorse dovuta ai tagli alla spesa pubblica imposta dai Governi nazionali che si sono succeduti, assieme ad una “furbesca” ripartizione di quelle risorse all’uopo destinate, sulla base di criteri che nei fatti hanno penalizzato pesantemente le regioni del sud. E quindi il nostro mercato del lavoro. Ovvero criteri che anziché considerare il territorio, numero delle strutture esistenti, povertà e disoccupazione femminile hanno (come nella recente polemica scoppiata all’inizio del 2022 per i finanziamenti del PNRR) adottato come criterio la Popolazione al 2035!
Appare evidente che, se fosse confermata questa metodologia di ripartizione poiché la Campania, negli ultimi 7 anni, ha perso 279 mila abitanti, vedrà peggiorare ulteriormente proprio il tasso di occupazione femminile. Un altro aspetto che spiega quel 29,1% di occupazione femminile è legato ad un fenomeno di segregazione occupazionale, di cui le parti sociali in Campania, hanno smesso di occuparsi e secondo il quale le donne a parità di competenze e di istruzione, ricoprono posti di lavoro peggiori, peggio retribuiti o prevalentemente nel sommerso. Un fenomeno che persiste nonostante in Campania (dove più del 50% della popolazione è donna) le donne studiano di più e sono anche meglio istruite dei loro coetanei maschi. Un dato che si conferma anche sul piano nazionale nell’indagine “Gender pay Gap Almalaurea 2022”. Secondo tale indagine, a cinque anni dalla laurea, mediamente gli uomini percepiscono una retribuzione di 20 punti percentuali superiore a quella percepita dalle donne a parità di condizioni.
A titolo di esempio, in riferimento alla laurea triennale si registrano 1.651 euro degli uomini contro i 1.374 euro delle donne. Un divario retributivo ancora più marcato se il riferimento è alla laurea magistrale dove primi guadagnano in media €1.713 mentre le donne €1.438. Non è un caso, infatti, se l’EUROSTAT associa il tema della condizione femminile del lavoro, della discriminazione salariale a quello della povertà lavorativa. Ma in questo caso vi è un ulteriore elemento di criticità. La scelta di percorsi di studio prevalentemente verso quelle discipline che non rispondono alle reali esigenze del mercato del lavoro locale, motivo per cui le nostre donne si accontentano di accettare un lavoro sottopagato e che non ha nulla a che fare con il titolo di studio conseguito. In questo contesto, alle Università spetta il compito di operare un processo di restyling delle classi di laurea, se intendono partecipare attivamente a creare competenze utili alle imprese. Ma è evidente che su questo aspetto la Regione insieme alle parti sociali può svolgere un ruolo fondamentale per verificare e laddove serve riqualificare percorsi di orientamento al lavoro se, senza considerare in questa sede il reddito di cittadinanza, le difficoltà di reperimento di figure professionali rispondenti alle esigenze del nostro mercato del lavoro riguarda circa il 40% delle assunzioni programmate da parte delle imprese.
I percorsi di transizione scuola lavoro che non producono un impatto significativo vanno modificati e/o eliminati e su questo le associazioni datoriali, la camera di commercio svolgono un ruolo cruciale. Le analisi Excelsior e quelle camerali non possono più limitarsi solo ad elencare i profili che mancano e le relative percentuali, urge un lavoro di dettaglio che offra al sistema regionale per le politiche attive del lavoro l’opportunità di intervenire con azioni mirate. E per restare in tema e per tentare di risolvere in parte il problema la regione Campania si faccia promotrice di una iniziativa con le altre regioni del sud per riqualificare, elevandone gli standard professionali, tutti quei profili da impiegare nel terzo settore che favoriscano la creazione di lavoro remunerato e di qualità proprio nel settore dell’assistenza e della cura alla persona per migliorare la qualità dei servizi e assicurare una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro.
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