Il futuro
Dopo Covid: per ripartire bisogna ripensare la modernità
Il Dopo. Una parola si sta imponendo nell’ordine del giorno. Il Dopo che, ancora più stressando sui tempi, diventa la Fase 2, l’Inizio… la ripartenza. Vogliamo una data, che qualcuno indichi un termine sul calendario, perché dobbiamo – letteralmente – uscirne fuori. Come se avessimo già superato il tempo (e i discorsi) delle mascherine, delle terapie intensive, dei bollettini della Protezione Civile. Siamo, vogliamo essere già oltre, certo anche per la necessità psicologica di esorcizzare la reclusione. Questa urgenza purtroppo ha un limite che forse non possiamo più permetterci, l’abitudine diventata cultura (e viceversa) del correre – anche in questa immobilità – sull’onda emotiva del qui-e-ora.
Un limite che ha una radice nel modo in cui abbiamo organizzato questa nostra società, nel mito dell’efficienza e dell’azione che comporta immediatamente il risultato, impossibili e inaccettabili ritardi, sfasature. Veniamo da un mondo performativo, in cui non sono permessi imprevisti e incidenti. Il mondo che si è assuefatto all’evidenza di se stesso e se ne è soddisfatto, confidente nel cammino sempre progressivo della scienza. Eppure, qualche scricchiolìo si era già manifestato. Vogliamo dire dello stress climatico, delle città irrespirabili, di un modo di riproduzione materiale della vita – a cominciare dalle filiere del cibo – che allungava ombre inquietanti sulle conseguenze per la salute?
Per non parlare delle pulsioni alla sicurezza che cominciavano a mettere in discussione il perimetro dei diritti, dell’esigenza diffusa di una rilegittimazione della politica che poneva in questione lo stesso modello della democrazia, della questione dell’altro che veniva a riproporre il tema storico delle migrazioni e delle differenze, a volte abissali, tra i livelli e le condizioni di vita (e non c’era bisogno di saltare in un altro continente, bastava fare un giro in certe periferie, in un carcere o nella casa di qualche anziano).
Il Covid-19 ha determinato il cortocircuito dell’estroversione performativa rovesciandola nell’immobilità della clausura. Ci ha fatto sapere che quel rumore di fondo era una crepa che si stava allargando, era una domanda alla quale adesso ci troviamo obbligati a rispondere. Ed ecco allora il Dopo. Vogliamo pensarlo solo come l’uscita dal tunnel? Al termine del quale ci sarà il mondo di prima? No, tutti conveniamo sulla necessità di una transizione che sia circospetta e graduale, contemperando esigenze ma ponendo al primo posto la necessità di evitare una qualsivoglia ricaduta e, al tempo stesso, forti della percezione che stiamo vivendo un passaggio che introduce una discontinuità, strutturale.
Il Dopo lo dobbiamo cominciare a pensare dall’Adesso, dall’incertezza che ci attraversa che dobbiamo trasformare in lucidità: il Dopo deve iniziare dalla consapevolezza dei problemi e delle contraddizioni strutturali che già segnavano il Prima. E il Prima è la nostra modernità che ha presunto di metterci al centro, dimenticando la complessità dei sistemi che fanno il mondo, in cui ci stanno le stelle e i virus, e il nostro fragile incedere su un pianeta fra le galassie e un frammento di Dna che può distruggerci. La modernità che ha migliorato le condizioni di vita (e non di tutti) con il paradosso di mettere a repentaglio la continuità della vita stessa.
La modernità piena delle sue volontà di potenza, delle sue rivoluzioni finite in stermini e gulag, dei Leviatani tirannici, capaci di essere duttili, seduttivi e accoglienti, del controllo dei corpi e delle menti, dell’emarginazione e delle solitudini. La modernità che produce la penicillina e la bomba atomica e che qualcuno con la filosofica distanza che produce la riflessione rispetto al tempo in cui si vive già si sentiva postumo o di cui vagheggiava utopiche redenzioni mentre ne avvertiva il fuori-di-sesto. Che si chiamassero, Nietzsche, Freud, Marx.
La modernità, ma forse a questo punto, anche l’uomo che si trova in questa sua fase che adesso ci mette di fronte al Dopo. L’uomo che deve avere la capacità di spostarsi dal centro e, al tempo stesso, di assumere la responsabilità che gli compete in quanto tale. Quest’uomo dovrà essere in grado di riscrivere il lessico della sua vita, perché ogni parola dovrà guardarla da un altro punto di vista, quello del problema, della compatibilità e della condivisione. Saranno le stesse le parole, la libertà, il lavoro, l’uguaglianza, la felicità, l’amore, il desiderio, l’individuo, la comunità, la rappresentanza, la paura, la fede, la laicità, l’ambiente, e però dovrà rivederne l’ordine, la combinatoria, la composizione e inventarne alcune nuove e rivedere la cornice che tutte le contiene.
E quest’esercizio è lo stesso che dovranno svolgere i vari sistemi che fanno una società, l’economia della produzione di tutto di più, la finanza delle bolle, la politica chiamata al compito di darsi come reale rappresentanza della complessità sociale, di farsi mediazione e non apparato, di ridarsi priorità – il Covid è stato chiaro, la sanità, la scuola, il lavoro, le tecnologie per tutti e ha indicato anche strade nuove di riconversioni e sviluppo – e a rigenerarsi con un patto strutturale con i saperi, nella loro pluralità. Un’Alleanza, che trova forza nella consapevolezza della fragilità. Platone, quasi venticinque secoli fa, scriveva lettere a Ierone di Siracusa sull’esercizio del potere. Che la politica dia un’occhiata alla posta, perché il postino, Dopo, non suona sempre due volte.
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