Rinominare, eccolo qua il nuovo verbo del fascismo che avanza. Il dipinto “Danzatrici russe” di Edgar Degas si chiamerà d’ora in poi “Danzatrici ucraine”. L’hanno chiesto via Instagram oscuri utenti del social network alla National Gallery di Londra, dove il quadro è custodito e al momento non esposto. Un dipendente del dipartimento educazione del museo s’è preso a cuore la proposta. E la galleria ha provveduto a soddisfare gli utenti protestatari perché questo, ha fatto sapere un portavoce del museo, “è il momento appropriato”. Fonte: The Guardian. Appropriato per cosa? Per far abbattere la meticolosa idiozia del fondamentalismo da propaganda di guerra su un capolavoro di un impressionista francese di due secoli fa?

Povero Degas. Il suo pastello raffigura una compagnia di ballerine che lui aveva visto danzare a Parigi. Ne era rimasto rapito. C’è del giallo e del blu in quella danza. Forse dei nastri intrecciati ai capelli e ai tutù. Che i colori nazionali dell’Ucraina siano stati a fine Ottocento ritratti in soavi trasparenze in un’opera chiamata “Danzatrici russe” risulta oggi per alcuni insopportabile. Un ruolo nell’operazione Cancella e Rinomina pare l’abbia avuto la direttrice dell’Art Union, Maria Kashchenko, ucraina, per nulla imbarazzata dall’alto del suo incarico di funzionaria museale di rango a cambiare il nome a un dipinto di Degas. Anzi. “Io ho capito che il termine arte russa è diventato un facile ombrello usato per cose diverse – ha detto la direttrice Kashchenko – e in questo momento è veramente importante essere corretti”.

Non è soltanto una sua personale esigenza. No. Sragionano in tanti. Ha detto tempo fa a Der Spiegel la direttrice dell’Istituto ucraino di Londra, Olesya Khromeychuk: “Ogni visita in una galleria o in un museo a Londra con mostre sull’arte o sul cinema dell’Urss rivela un’errata interpretazione deliberata, o forse solo frutto di pigrizia, della regione. Come se fosse una Russia sconfinata. Proprio come vorrebbe l’attuale presidente della Federazione Russa“. E ancora: “I curatori non hanno problemi a presentare arte ed artisti ebrei, bielorussi o ucraini come russi. Nei rari casi in cui un ucraino non è presentato come russo, viene presentato come nato in Ucraina, come è successo col film del regista Oleksandr Dovzhenko in una delle più grandi esibizioni di arte rivoluzionaria a Londra”.

In questo clima agghiacciante, utile più ad esaltare pericolose manie che ad accogliere e proteggere suscettibilità ferite, il portavoce della National Gallery ha tentato pure una giustificazione accademica: “Il titolo di questo dipinto è stato oggetto di discussione per molti anni ed è trattato nella letteratura. Tuttavia c’è stata una maggiore attenzione nell’ultimo mese a causa della situazione attuale, quindi abbiamo ritenuto che fosse il momento di aggiornare il titolo del dipinto, per riflettere meglio il suo soggetto”. L’idea sarebbe quindi superare a spintoni questa “pigrizia”, istigando anche altre istituzioni culturali a rivedere i nomi dell’arte considerati sbagliati dalla cecità dei nazionalismi del momento.

Tutto ciò a testimonianza del fatto che non nasceva solo da provincialismo misto a banale ignoranza la figuraccia dell’Università Bicocca di Milano quando, a invasione dell’Ucraina appena avvenuta, ha prima cancellato un corso monografico su Dostoevskij e poi, viste le reazioni, s’è spiegata dicendo che sì, si poteva pure leggere in aula Dostoevskij ma soltanto se si improvvisava su due piedi un corso su un autore ucraino.