Il manifestarsi di due crisi – quella del 2007 e quella attuale – pur con le loro diversità ha dimostrato quanto sia stato rischioso affidarsi esclusivamente alle leggi di mercato. Se dall’inizio del Terzo millennio il controllo del ciclo finanziario, negli Usa, non fosse stato affidato solo alla Fed, forse quell’“irrazionale euforia”, che portò al disastro, non avrebbe preso piede. Se negli anni trascorsi, in tutto l’Occidente, la sanità non fosse stata depotenziata, la battaglia contro il Covid -19 sarebbe stata meno drammatica. Sembrano semplici episodi e, invece, sono la spia luminosa di problemi che hanno una ben più consistente radice di carattere teorico. Si dice che il mercato debba essere regolamentato. Giustissimo. Ma bastano solo quattro regole che possono essere facilmente aggirate o non sono necessarie strutture istituzionali poste a presidio del loro rispetto?
La domanda è retorica. Certo che ci vogliono strutture pubbliche in grado di far rispettare quelle regole, altrimenti quegli stessi vincoli diventano semplice ed inutili auspici. Il problema è il loro modo di operare. Devono essere capaci di imbrigliare la forza del mercato, senza minarne il suo intrinseco dinamismo. Un po’ come avviene nella produzione di energia nucleare. Il reattore va controllato, non spento. Quindi nessun ritorno al vecchio statalismo: morto con la caduta del muro di Berlino. Non abbiamo bisogno di uno Stato tuttofare. I presidi pubblici devono avere una loro funzione precisa. Sovraintendere ed intervenire, con tutta la potenza di fuoco necessaria, nei momenti indispensabili. Se, per ritornare all’esempio americano, la Fed avesse drenato liquidità, invece di alimentarla continuamente, su richiesta e sulla spinta dei vari potentati finanziari e politici, Lehman Brothers non sarebbe caduta come una pera matura.
Se negli anni passati, per tornare al presente, non ci fossimo illusi che lo sviluppo tecnologico aveva ormai archiviato il problema del rapporto “natura-società”, oggi i morti sarebbero un numero inferiore. Quel grande tema, affrontato dagli economisti classici – soprattutto da Marx – è stato semplicemente rimosso. Quanto a oggi, e non solo a causa del virus, risulta evidente che la natura è ancora in grado di vendicarsi. Non solo sul fronte delle epidemie. Basti pensare al degrado ambientale – ne parlava Biagio De Giovanni – di cui tanto si discute, ma contro il quale ben poco si fa. Questa battaglia può essere affidata solo al privato o non richiede invece una strategia di breve e medio periodo che solo i presidi pubblici possono impostare e sviluppare?
Come si vede siamo oltre l’ipotesi dei cosiddetti “fallimenti del mercato” che, in passato, giustificavano l’intervento pubblico in economia. In una realtà in cui lo sviluppo della attività finanziarie è pari a 10 o 15 volte il Pil mondiale, l’emergenza è permanente. Navighiamo con una piccola barca in un oceano che ribolle. Addormentarsi al timone significa ripetere l’esperimento dei sonnambuli del libro di Christopher Clark. Per evitare che questo accada è necessario dare fondo al complesso di conoscenze che sono indispensabili per tracciare una rotta meno perigliosa. Ed è qui che entra in gioco il socialismo. Non ha grandi rivali. Le uniche alternative possibili sono quelle che hanno portato all’attuale fallimento. Ieri l’esplosione del reattore nucleare, a causa della mancanza di controlli efficaci, oggi la pandemia. Domani la necessità di ricostruire, evitando di ripetere gli errori del passato.
I problemi da affrontare sono tanti a partire dai limiti ormai certificati di una globalizzazione che ha raggiunto un punto di non ritorno. Se non si vogliono correre i rischi che accompagnarono la fine della prima globalizzazione del 900, che sfociarono nella Grande guerra condizionando tutto il “secolo breve”, occorre ritrovare il senso di una solidarietà e di un umanesimo che va oltre le colonne d’Ercole del mercato e dell’economia. Le difficoltà europee lo dimostrano. Abbiamo bisogno di fondamenta solide e di un pensiero politico che non sia figlio delle mode.
Nella storia, nessun’altra teoria politica ha avuto la medesima forza delle idee socialiste. La capacità di resistere all’usura del tempo (lo ricordava Luigi Covatta) o di espandersi fino ad assumere una dimensione planetaria. Che ancora disegna – basti pensare alla Cina – gran parte della mappa terrestre.
Lo stesso Islam, pur così geloso della propria tradizione, ne subì il fascino. Dando luogo a specifiche esperienze politiche, sotto la bandiera di un socialismo, seppure nazionale: quello arabo. Merito del suo carattere inclusivo, nel segno della libertà, del suo antidogmatismo che gli ha consentito di mescolarsi con altre culture. Keynes stesso, che pure non vi si riconosceva, sarebbe inimmaginabile al di fuori di quella contaminazione. Qui sono le basi di quel nuovo umanesimo, necessario per affrontare il mondo che nascerà sulle ceneri del dopo Covid-19. Sarà quindi un socialismo 4.0, o “del terzo tipo” come dice Fabrizio Cicchitto? Ci si arriverà. Ma prima bisogna lavorare. Cogliere le novità del momento e riflettere sugli errori passati. Senza cedere al “nuovismo” o all’improvvisazione.
Abbiamo bisogno di salti nella qualità della politica: indispensabili per affrontare le incognite di un mondo che non conosciamo, ma che comunque saremo costretti ad interpretare e con il quale interagire. Due i possibili pericoli: l’incultura dei principianti, con tutta la loro fuffa ideologica, e le certezze degli ortodossi. Di coloro, cioè, che per pigrizia o tornaconto individuale o collettivo, riproporranno vecchie ricette che, seppure in modo traslato, sono state all’origine dei guai che stiamo vivendo. E che potevano essere evitati se alcuni dei vecchi precetti del socialismo (sviluppo & welfare) fossero stati tenuti, con lungimiranza, nel debito conto.
Fausto Bertinotti, in un intervento recente (Il Riformista 27/3), che riecheggiava le nostre stesse preoccupazioni, si chiedeva se la risposta alle questioni poste dalle drammatiche condizioni evidenziate dalla presenza del virus non dovesse essere la “ricerca di un’alternativa di società”. Per poi concludere: “Ma dove sono le forze per provarci?”. Questione centrale, ma che appartiene a un tempo secondo. Nel presente contano ancora le persone. Uomini come quelli indicati da Fabrizio Cicchitto (Minniti, Gori, Calenda e tanti altri) cui spetta un compito gravoso, e forse inconsapevole: provare ad impastare una palla di neve che, lanciata dalla cima di una montagna, possa provocare una piccola grande valanga.