Se a Roma non esiste Mafia Capitale, ci sarà almeno ‘Ndrangheta Capitale. Ci aveva già provato a dimostrarlo nel 2009 la Procura di Pignatone e Prestipino ed era andata male, dieci anni dopo, compreso il dissequestro del mitico Café de Paris. Ci riprovano oggi, inquirenti e forze dell’ordine, in coordinamento con la procura di Reggio Calabria con il sequestro di 24 società e 72 arresti, 43 nel Lazio e 35 in Calabria. Il procuratore aggiunto di Roma Michele Prestipino ha guidato le indagini, mentre il suo ex capo e mentore Giuseppe Pignatone sostiene l’operazione con un editoriale su Repubblica dal titolo “Il contagio della ‘ndrangheta”.

Può essere che quest’operazione, apparentemente così brillante perché ha portato agli arresti di personaggi come Antonio Carzo e Vincenzo Alvaro e alla scoperta dell’esistenza a Roma di una vera ‘ndrina calabrese, avrà il meritato successo, coronato da sentenze dei tre gradi di giudizio. Così si potrà cancellare l’onta delle decisioni di segno opposto del passato. Quella che ha negato l’esistenza della mafia a Roma e l’altra identica sulla presenza della ‘ndrangheta. Ma è proprio necessario dover comunicare al mondo che la capitale d’Italia, se proprio non è il centro nevralgico della mafia che fu di Riina e Provenzano, quanto meno è ‘Ndrangheta Capitale?

Certo, se esistesse già il fascicolo delle performance dei magistrati, qualche macchiolina il nome di Vincenzo Alvaro, considerato il capo della ‘ndrina romana, dovrebbe averla lasciata. Nei fascicoli dei pm e magari, se fosse possibile, anche nelle carriere di qualche giornalista. Non occorre essere di Roma e conoscere via Veneto per ricordare la storia gloriosa di quel Café de Paris frequentato negli anni cinquanta e sessanta da Frank Sinatra, Federico Fellini e Marcello Mastroianni. Quel luogo magico oggi non esiste più soprattutto a causa di un’indagine sballata della Procura di Roma. Era il 22 luglio del 2009 quando guardia di finanza e carabinieri del Ros posero sotto sequestro preventivo il bar, insieme ad altri centri commerciali, ristoranti e società varie, e misero le manette a una serie di persone, presunte affilate alla ‘ndrangheta. Nel mirino soprattutto l’imprenditore calabrese Vincenzo Alvaro, ritenuto il proprietario occulto del locale di via Veneto e il capo dell’infiltrazione mafiosa nell’economia della città.

Anche allora, proprio come oggi, apparvero titoloni allarmistici per la scoperta delle “mani”, o dei “tentacoli” della organizzazione mafiosa sulla capitale d’Italia. È impressionante come la storia giudiziaria di questo Paese, quella più strillata e valorizzata dai media, si ripeta come in una perversa catena di Sant’Antonio: retata-condanne in primo grado-assoluzioni in appello con conferma di cassazione. E il reato associativo di stampo mafioso, quello su cui tutto si era retto, sbriciolato. Anche quella volta è andata così. Intanto il numero degli imputati era stato già sfrondato in primo grado, con quattordici condanne su ventiquattro imputati. Ma la sentenza -siamo nel 2014- aveva consentito di far apprezzare ai giornali i “quarant’anni alla cosca degli Alvaro”, secondo la pessima abitudine di certi cronisti giudiziari di sommare gli anni di condanna. In realtà la pena inflitta a Vincenzo Alvaro, la più pesante, era stata di sette anni di carcere. Non proprio un peso da capomafia. Ma il procuratore aggiunto Michele Prestipino, che aveva coordinato le indagini, aveva espresso soddisfazione per averci visto giusto, con i sequestri preventivi di tante imprese commerciali tra cui il Café de Paris, a «conferma significativa della presenza di questi spaccati criminali nelle pieghe dell’economia della città».

I tempi della giustizia sono lunghi, si sa, ma il sistema economico non aspetta, e un locale sequestrato nel frattempo muore. E così è stato. Anche se, tra il 2018 e il 2020, una serie di sentenze ha ribaltato l’inchiesta del 2009: dalla cassazione che ha stabilito l’inesistenza del “sistema Alvaro”, fino alla Corte d’appello di Reggio Calabria che ha riconsegnato ai proprietari 102 beni sequestrati, tra cui il Café de Paris ad Alvaro, e infine la terza sezione d’appello di Roma, che fa cadere l’aggravante mafiosa e assolve tutti gli imputati. Un mucchio di polvere. Questa è la storia che nessun giornale racconta (un plauso a Mattia Feltri, l’unico ad averne fatto accenno). Naturalmente non è detto che l’abbaglio del 2009 e poi del 2014 debba ripetersi nel 2022 e negli anni successivi. Ma ci sarà qualche inquirente, o qualche giudice a rammaricarsi se nel frattempo quelle che erano fiorenti attività commerciali sono morte e qualche imprenditore è finito sul lastrico? Ci pensino gli entusiasti del blitz di oggi. Dal prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, al sindaco Roberto Gualtieri e al Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.