Il candidato dem
Dopo il golpe della procura, Orlando rinunci alla candidatura in Liguria: il giustizialismo del Pd ha creato danni enormi
Dopo il golpe della Procura di Genova che ha imposto le dimissioni a un imputato (non ancora dichiarato colpevole da nessun tribunale della Repubblica Italiana), si parla dunque della candidatura a Presidente della Liguria dell’ex Ministro della Giustizia. Molti hanno ironizzato sulla coincidenza tra l’atteggiamento della Procura e il fatto che sia stato ministro della Giustizia. Ma vale la pena ricordare che è stato Ministro alla Giustizia solo cinque anni, dal 22 febbraio 2014 al 1 giugno 2018, nei governi Renzi e poi Gentiloni. Prima però è stato Ministro dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare per 300 giorni con il governo Letta, e poi è stato Ministro del Lavoro per un anno e otto mesi con il governo Draghi.
Insomma, il nostro eroe è stato al governo per quasi sette anni. E siccome i rovesci elettorali del Pd sono dovuti al destino cinico e baro, non certo alla politica condotta dai governi di cui ha fatto parte Orlando, o alle strategie (chiamiamole così per carità di patria) del partito di cui è stato anche vicesegretario con Zingaretti. Siccome, come diceva la canzone cantata da Nilla Pizzi e Gino Latilla, la colpa non è sua, ma del bajon (“Se così va il mondo che gira, noi così lasciamolo girar”) si sono sistemati tutti e non hanno mai pagato il conto. Del resto, se gli elettori lo hanno mandato al Parlamento per cinque legislature, quasi diciotto anni, ci sarà una ragione. Sì. È vero. I sistemi elettorali erano un po’ aggiustati, espropriando gli elettori delle scelte, e facendo liste bloccate creando di fatto, più che eletti, dei nominati.
Viene da ridere a pensare che per i presidenti di regione o per i sindaci dei comuni medio grandi vale il limite dei due mandati e invece uno può essere parlamentare a vita. Nel suo cursus honorum, dopo la sconfitta di Renzi al referendum del 2016, partecipa alle primarie del 30 aprile del 2017, (dicono le cronache) con il sostegno dell’ala “progressista” del PD , Gianni Cuperlo, Cesare Damiano, Nicola Zingaretti: si candidava contro la prepotenza, e per rifare il PD per “compiere quella speranza che non si era mai compiuta”; naturalmente ebbe anche l’appoggio di Enrico Letta, che non poteva certo sostenere chi gli aveva fatto le scarpe, quel Renzi che insieme a Martina si ripresentava. Intanto D’Alema, Bersani e una quarantina di deputati uscivano dal PD. La cosa bella è che Renzi vinse con il 67% dei voti degli iscritti e con il 69% degli “elettori” e guarda caso perse solo in Puglia, visto che il terzo candidato era Michele Emiliano. Praticamente ci fu la ripetizione delle primarie del 2013 in cui vinse Renzi (contro Cuperlo e Civati) con il 68% degli elettori, ma solo il 45% degli iscritti.
Ora tra tutti questi incarichi, e queste primarie, tra tutte queste lotte politiche interne, senza mai un vero congresso locale, provinciale, regionale, nazionale ma sempre con questa personalizzazione della politica, originate dal combinato disposto di Segni/Occhetto/D’Alema/Veltroni/Berlusconi, è mai possibile che nessuno abbia mai fatto autocritica per gli errori, testimoniati, come minimo, dalla débâcle elettorale del 2018 e del 2022? Così poi i vari boss delle correnti hanno inventato una segretaria che entrava e usciva dal PD, a suo uso e consumo, ed una segreteria di persone che si sono iscritte al partito dopo la nomina, e che sono diventate poi parlamentari europei. Ma adesso nel PD non si parla più di cacicchi, anche se le candidature sono state il frutto dei cacicchismo.
Ora, in tutta questa vicenda, appare una continuità: dal PDS si è travasato nel PD un giustizialismo di fondo con un carico di antipolitica che ha portato a danni incommensurabili: la riduzione delle immunità parlamentari; la legge che ha abolito la elezione diretta dei Consigli provinciali; la elezione diretta dei “podestà” e di “governatori” che ha portato allo svuotamento del ruolo dei consigli comunali e regionali; l’atteggiamento sui vitalizi, la riduzione dei parlamentari e la solita litania sulle dimissioni appena uno riceve un avviso di garanzia, e la professione di fede nella fiducia della magistratura.
Ora, a parte che se si deve ricorrere a un personaggio che è stato al lungo in parlamento e al governo, significa che in Liguria non si è fatta una politica di formazione dei gruppi dirigenti e di nuovi amministratori. E questo la dice lunga sul partito. Sarebbe cosa buona e giusta se Orlando rinunciasse alla candidatura anche per evitare quello che il comizio dei quattro cavalieri dell’apocalisse (Conte, Schlein, Bonelli, Fratoianni) ha fatto sembrare un vero e proprio sciacallaggio. E poi le discussioni Renzi sì/Renzi no, sono veramente il segno della improvvisazione di una linea politica, e di una visione tutta politichese della candidatura. E forse vale la pena stabilire un cursus honorum obbligatorio per legge: consiglio comunale, consiglio provinciale, consiglio regionale, parlamento nazionale, parlamento europeo. E, dalla casella parlamentare europeo si torna alla casella consigliere comunale, ad elettore piacendo.
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