Quando l’epidemia finirà, nulla sarà più come prima. Si fisseranno nuove priorità, ci si misurerà con nuovi contesti, ma sopratutto, si testerà la tenuta sociale del Paese: i nervi che saltano, le libertà individuali limitate, focolai di rabbia che si manifestano con una frequenza impressionante, l’incertezza del futuro che si materializza nella domanda più ricorrente: quando finirà tutto questo? Il governo proverà ad allentare le catene delle restrizioni di queste settimane e probabilmente non arriverà mai il momento in cui tireremo il sospiro di sollievo: non ci sarà il giorno della liberazione fissato in rosso sul calendario. Sarà tutto lento, come lenta sarà la ripresa, quando ci sarà. Per fortuna non c’è solo questo.

In questo periodo si gioca una gara di solidarietà e altruismo: le adesioni dei medici che si sono resi disponibili a dare una mano negli ospedali in Lombardia, le donazioni per costruire nuovi reparti in poco più di dieci giorni, la ritrovata dimensione familiare e gli stessi canti dal balcone che fanno sentire un Paese terribilmente distante, parte di una comunità stretta. Persino il premier sembra avere cambiato volto: da solo dietro una scrivania a Palazzo Chigi, mentre guarda una telecamera e un televisore. È l’immagine di un missionario che sfida un nemico invisibile in una delle guerre più atroci che la nostra nazione abbia mai combattuto.

Quante ferite questa emergenza ci lascerà, è invece la domanda che chi ha responsabilità pubbliche – dalla classe dirigente politica, ai sindacati, al mondo imprenditoriale – deve porsi. Saremo di fronte a una nuova recessione, forse peggiore di quella del 2008. E di fronte al richiamo, roboante, alla responsabilità nazionale e alla rinuncia delle proprie bandiere, la risposta è stata piuttosto quella di preservarle. Perché Salvini non ha proposto di sospendere le domande per quota 100? Per quale ragione Crimi non ha avanzato la proposta della sospensione delle nuove richieste per il reddito di cittadinanza? E quanto ci è costato e ci costa?

Insomma, i vecchi governi hanno preferito le regalie e l’ assistenzialismo agli investimenti virtuosi. Dalle grandi emergenze nascono nuove necessità e maggiori prese di coscienza. Dovremo agire con la consapevolezza che il nostro sistema sanitario nazionale è una eccellenza e che il mantenimento pubblico di questo baluardo sociale ha un costo che lo Stato deve sostenere investendo e non determinando tagli pensando che un ospedale sul territorio sia luogo di spreco e non di presidio fondamentale per i cittadini.

Avremo la consapevolezza che è meglio una Europa non solo amica, ma unita – con una politica estera condivisa – che sospende il patto di stabilità per affrontare l’emergenza e immettere liquidità nel sistema bancario ed economico. Ma c’è di più. La contrapposizione fra sindacati e Confindustria ci sta riportando a quegli anni dove i grandi industriali erano inermi di fronte alle richieste della classe operaia.L’economia italiana avrà bisogno di un grande shock per rialzarsi. Per fare questo sarà necessario implementare il dialogo tra le parti sociali per unire il Paese e che lo Stato diventi di nuovo uno dei principali attori della vita economica nazionale, regolamentando i mercati nell’interesse della collettività e dei soggetti privati.

Come fu fatto nel dopoguerra, l’intervento statale ha portato l’Italia a rientrare fra le economie più forti del pianeta ma ha anche avviato un processo degenerativo che lentamente finì per coinvolgere l’intero sistema statale, politico e industriale italiano. L’economia di guerra passa attraverso l’impegno massivo dello Stato, che dovrà ritornare ad essere centrale nella vita produttiva e industriale italiana. Ma bisognerà che si cammini tutti verso la direzione, per l’Italia. Perché terminato questo periodo, avremo la consapevolezza che la competenza e l’umiltà al Governo è sempre meglio dell’uno vale uno o dell’uomo solo comando.