La storia
“Dotto’ vi posso offrire qualcosa”, il giudice Puglia e la visita al detenuto in sciopero della fame

Carcere, funzione della pena, diritti, garantismo, magistratura. A volte, per comprendere a fondo il senso di tutto ciò, più delle teorie possono valere i fatti e le parole con cui quei fatti sono raccontati. È per questo che credo meritino di essere condivise le parole che, giorni fa, Marco Puglia, magistrato di Sorveglianza, uno di quei magistrati che entra nelle carceri e il cui impegno e il cui valore umano e professionale sono unanimamente e diffusamente riconosciuti negli ambienti giudiziari, ha usato per raccontare sulla sua pagina Facebook un’esperienza vissuta.
Il suo è un racconto che diventa un messaggio di speranza e una lezione di garantismo per chi sta ancora a domandarsi se davvero è necessario che i magistrati imparino a entrare nelle carceri per vedere con i propri occhi qual è la realtà della reclusione e imparino anche a coltivare una certa sensibilità giuridica e umana. «Oggi due vicende molto significative sono accadute nella mia giornata: una terribile, l’altra piena di speranza. Voglio raccontarle perché sono state per me motivo di riflessione», esordisce il magistrato Puglia nel suo racconto. «Le racconterò, però, in ordine cronologico inverso, perché voglio rischiarare il buio con la luce».
«Oggi pomeriggio un’auto è rimasta parcheggiata davanti al passo carraio del portone di ingresso della palazzina dove abito, impedendo a tutte le vetture di entrare e di uscire. Quando, dopo una lunga attesa, il proprietario si è deciso a tornare gli ho fatto notare il suo comportamento. Per tutta risposta sono stato pesantemente minacciato, con una rabbia ed una violenza che raramente ho visto. Sono rimasto nel mio difficile quartiere, che a volte amo ed altre volte odio, e ho messo in conto anche questo…». Poi c’è l’altra parte del racconto.
«Oggi c’è stato, però, un evento speciale per me. Stavo lavorando in carcere quando una educatrice mi ha chiesto di parlare con un detenuto che da più di un mese stava facendo lo sciopero della fame. Nonostante avessi pochissimo tempo le ho detto di sì e sono corso con lei nella cella dove c’era questo ragazzo di ventotto anni, ormai magrissimo, disteso a leggere. Sono entrato da solo. Appena mi ha visto, con fatica, si è messo a sedere ed io mi sono seduto accanto a lui. Abbiamo iniziato a parlare e ad un tratto mi ha chiesto: “Dotto’ vi posso offrire qualcosa?”. Ed io: “Sì, ma solo se lo dividete con me”. E allora barcollando si è diretto al suo armadietto dove in una piccola busta legata con un nodo, c’erano dei pacchi di salatini. Me ne ha passato uno, l’ho aperto e, mentre parlavamo della sua storia, abbiamo condiviso quel piccolo pasto insieme. Ed è stato così che ho capito che ciò di cui quel ragazzo era più affamato, era il bisogno profondo di essere ascoltato. Avevo davanti a me un uomo smarrito e spaventato. Ed i suoi occhi hanno parlato con sincerità ad un giudice che era contento di stare seduto su un letto di una cella di un carcere a mangiare dei salatini. Ed io, in quel luogo tanto disadorno ed inconsueto, mi sono sentito utile e meno solo. Perché la giustizia non è fatta solo di articoli di legge o processi. È fatta anche di speranza, di una speranza fatta anche di piccoli gesti che arrivavo da chi non ci aspettiamo. Oggi un uomo libero mi ha causato un dolore. Un uomo che la propria libertà l’ha persa mi ha donato, invece, un raggio di speranza. Ed è a questo dono, solo a questo dono, che voglio continuare a pensare per non perdermi mai nel buio in cui alcuni sembrano irrimediabilmente persi».
Perché la giustizia è speranza, come dice il giudice Puglia. E invece certa politica e certa magistratura sembra voler mirare a spegnerla quella speranza, a mortificare i diritti che la sorreggono, ignorare l’umanità a cui sottende. Un cambio di passo, quante volte lo si è anelato, quante volte lo si è inserito tra le priorità sempre poi sacrificate quando è stato il momento di passare dalle parole ai fatti. Intanto nelle carceri si muore (siamo arrivati ormai a settantadue suicidi dall’inizio dell’anno e a un numero impressionante di atti di autolesionismo), dalle carceri non si esce rieducati, le carceri non servono a fare giustizia né a garantire maggiore sicurezza. Sono il buio.
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