Il razzismo antiebreo macchiò pure il pensiero marxista
Dove nasce l’odio antisemita: a destra ma anche a sinistra così si è radicato
Piero Fassino è un galantuomo. Nella sua intervista a Il Riformista ha fatto delle affermazioni importanti, per il ruolo istituzionale che ricopre e per la sua storia politica e personale: affermazioni non solo condivisibili, ma coraggiose, nel momento in cui, in Europa, per fortuna non ancora in Italia – si ripresenta il mostro dell’antisemitismo. Fassino individua una origine comune del socialismo e del sionismo, come se volesse che il primo fosse garante e protettore del secondo.
«Il sionismo nasce alla fine dell’Ottocento come un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico. E nasce – sostiene Fassino – insieme al movimento socialista, tant’è che molti dirigenti socialisti vengono da origini ebraiche – si pensi a Treves e Modigliani, leaders del Partito Socialista. E le interazioni tra movimento socialista e movimento sionista erano fortissime, come testimonia la prima tessera del movimento sionista fondato da Theodor Herzl, che aveva come immagine un bue che traina un aratro in un campo di grano con il sole all’orizzonte, cioè un simbolo socialista. L’ebraismo – prosegue il presidente – oltre che essere una radice della civiltà e della storia europea, è anche parte della storia del movimento socialista del continente. Nascono insieme e crescono insieme. Non solo, ma l’avvento del fascismo prima e del nazismo – e di molte dittature dello stesso stampo reazionario in Ungheria, Polonia, Romania – e le loro persecuzioni contro gli ebrei, rinsaldano ancora di più il rapporto tra l’ebraismo e la sinistra, in una solidarietà cementata dalla comune lotta contro un comune nemico».
Per inciso ho apprezzato che Fassino, rievocando le origini del socialismo, si riferisca a esponenti di quella corrente riformista che venne espulsa dal Psi, per ordine della III Internazionale, in un Congresso, convocato apposta nel 1922, che si svolse nella Capitale una ventina di giorni prima della Marcia su Roma, tanto che Giacinto Menotti Serrati, il 28 ottobre era a Mosca dove si era recato per comunicare a Lenin la notizia dell’espulsione che lo stesso Serrati aveva rinviato il più possibile. Poi si dice della vigilanza rivoluzionaria… Ma la questione che intendo sollevare riguarda – potrei azzardare – l’approccio storico. Perché anche nella sinistra vi è una radice antisemita. Non mi riferisco solo ai tempi nostri e a quanti onorano gli ebrei solo da vittime dei campi di sterminio, mentre solidarizzano con quelli che vorrebbero vederli, adesso, cacciati dal loro Stato e magari defunti. Vi sono tracce di antisemitismo anche nel pensiero, negli scritti e delle iniziative dai padri nobili, tanto del socialismo umanitario quanto di quello scientifico. Potremmo definirlo un antisemitismo di classe, nel senso dell’identificazione degli ebrei con il capitalismo e i poteri forti. Oggi questi accostamenti sono politicamente scorretti, ma è sufficiente raschiare la superficie di certe analisi e chiamare in causa certi personaggi come cospiratori ai danni dell’umanità per capire che la “demoplutocrazia giudaica” è dietro l’angolo.
Ma torniamo alla storia, a quell’Ottocento che diede i natali a quelle grandi ideologie che adesso lottano per sopravvivere e difendere il meglio del Continente dal ritorno di nuove barbarie. C’è un saggio di George L. Mosse, Il razzismo in Europa (Laterza, prima edizione 2003) che svela una realtà meno rassicurante di quella ricordata da Fassino. Scrive Mosse che «l’identificazione degli ebrei con il capitalismo finanziario fu tipica dell’intera Europa». Vengono riportate considerazioni che sembrano stampate oggi in quella terra di nessuno in cui, a loro insaputa, l’estrema sinistra e l’estrema destra si incontrano. Viene citato un brano (1870) di Eduard Drumont: «L’espropriazione della società ad opera del capitale finanziario avviene con una regolarità paragonabile alle leggi di natura. Se entro i prossimi cinquanta-cento anni non si fa nulla per arrestare questo processo, tutta la società europea cadrà, mani e piedi legati, nelle mani di poche centinaia di banchieri».
L’ebreo che usava l’oro come un’arma era ritenuto incapace di un lavoro onesto. Pierre-Joseph Proudhon (chissà se Bettino Craxi ne fosse a conoscenza quando scrisse, con l’aiuto di Luciano Pellicani, quel famoso saggio che buttò lo scompiglio nel campo di Agramante della sinistra?) scorgeva – rammenta Mosse – negli ebrei e nel capitalismo finanziario il “nemico implacabile e odiato”. In sostanza, il socialista umanitario era spinto su una posizione razzista (“si deve rimandare questa razza in Asia o sterminarla”) dall’avversione per il capitalismo finanziario. Anche Karl Marx ebbe e manifestò le sue opinioni negli scritti sulla questione ebraica (1844). A suo avviso gli ebrei simboleggiavano non solo il capitalismo finanziario, ma il capitalismo di qualsiasi tipo. Ma anche in questo caso Marx si distingueva – se possiamo dirlo – per il rovesciamento della prassi. «L’emancipazione sociale dell’ebraismo è l’emancipazione sociale dall’ebraismo». L’abolizione dell’usura – sosteneva il filosofo tedesco – e delle sue pre-condizioni (cioè il capitalismo) avrebbe fatto scomparire l’ebreo, dato che le accuse contro di lui non avrebbero avuto più niente su cui basarsi ed egli perciò si sarebbe “umanizzato”.
In conclusione questo scritto vuole essere solo un piccolo affresco per ricordare che l’antisemitismo in Europa ha radici molto profonde e assai diffuse più o meno in tutte le culture che ne hanno intessuto la storia. Purtroppo quando si parla di origini giudaico-cristiane si racconta solo una parte della verità. Seguendo il saggio di George Mosse si scopre che l’antisemitismo nel Vecchio Continente è una suggestione trasversale qualunque sia il motivo con cui si pretende di giustificarlo e i mezzi con cui combatterlo ed estirparlo. È difficile limitarsi a segnalare una questione razziale senza affrontarne un’altra attinente al potere. Ma è altrettanto difficile fare il contrario.
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