La gara tra strafalcioni e struggimento per il governo gialloverde
Draghi al servizio di Confindustria: la sciocchezza di Domani, Fatto e Manifesto nostalgici di Conte e Lega
Con il coraggio che gli dà il cacciavite, Enrico Letta dunque lancia la sfida. E a Siena, dove il Pd appena qualche mese fa alle regionali aveva ben 15 punti di vantaggio sulla destra, mette in gioco la sua carriera. Invece che nella tranquillissima passeggiata toscana, il segretario del Pd un po’ più di chiarezza dovrebbe però metterla sulla linea politica. Che è oscillante e tecnicamente maldestra. Il Pd ogni tanto vacilla e dà prova di leggerezza culturale? Il responsabile di tante sbandate per “il Foglio” ha il volto coperto da una barba ottocentesca. E, con le sue pagine di critica del moderno, aizza ancora oggi i cervelli costringendo a notti insonni i dirigenti del Nazareno che poi di giorno, provati da cotanta fatica mentale, sbroccano. Scrive il giornale che dietro le trovate più visionarie del Pd c’è “Giuseppe Provenzano che di notte si addormenta con i libri di Marx sul comodino”.
Che il Pd abbia problemi di identità nessuno lo può negare. Che i suoi cortocircuiti ideali riconducano a Marx, ospite notturno dei tormenti dei democratici, è però una stravaganza interpretativa. La questione della laicità, che tanto sgomenta attorno al disegno di legge Zan? Da Marx si può ricavare quanto segue. “È impossibile creare un potere morale con paragrafi di legge”. Il diritto penale non può essere un veicolo di persuasione culturale. La sanzione giuridica cioè non può costruire opinioni, sia pure nuove, nel campo etico. La polemica sulla lettera contro i professori liberisti? Come ha notato uno studioso, M. R. Krätke, “Marx considerava il termine capitalismo corrotto dal suo uso prevalentemente moraleggiante”. La sua analisi empirica e strutturale per questo evitava schematismi fuorvianti come quelli di chi scambia il socialismo per una alternativa protezionista al liberismo. Se davvero qualcuno al Nazareno si ritrovasse tra le mani una pagina di Marx eviterebbe di confondere la analisi del Capitale con la disputa tra Peel e Disraeli, cioè con una divaricazione liberisti-statalisti tutta dentro il mondo conservatore inglese.
E allora? Nella paralizzante doppiezza lettiana, che con un piede sta nel governo mentre con l’altro corre per incoronare l’avvocato senza popolo, incide di sicuro una forte campagna della cultura di sinistra, non certo marxista però, contro Draghi. Oltre che sul foglio contiano (e ora neogarantista: ospita regolarmente gli editoriali dell’inquisito Davigo…), sul “Domani” (dove pubblicano strafalcioni su Weber, e Fedro diventa un Esopo che ha imparato a parlare latino) e sul “Manifesto”, capita spesso di trovare l’associazione tra Draghi e la destra reazionaria. Un cattolico democratico radicalizzato come Tomaso Montanari lo ripete in ogni occasione: in Italia ai vertici della repubblica con Mattarella e Draghi siedono degli epigoni di Bolsonaro. E quello di Draghi è di sicuro “il governo più oligarchico e antipopolare dell’Italia repubblicana”. Il piombo di Scelba, le prove muscolari di Tambroni, Il governo della macelleria messicana di Genova sono campioni di irenismo e sensibilità democratica a confronto con l’esecutivo Draghi che certo dispoticamente abolisce la lotteria degli scontrini.
Per “il Fatto” Draghi è colui che “massacra gli italiani” e suole rivolgersi al popolo agitando qualcosa “come l’ombrello di Cipputi”. I toni apocalittici di Montanari risuonano anche in alcuni commenti apparsi sul “Domani” e sul “Manifesto”. Proprio il quotidiano che negli anni settanta corresse alcune rigidità della cultura comunista, rimarcando il rilievo delle tematiche garantiste, oggi ha una qualche nostalgia per l’ex ministro regista e canterino Bonafede, palma d’oro a Ciampino. Secondo Marco Revelli la riforma Cartabia, in vista di un equo processo di durata ragionevole, mostra soltanto un “segno brutalmente padronale”. Il rigetto verso il disegno riformatore è così forte che, strano per un allievo di Bobbio (che per decenni ha polemizzato in maniera magistrale con i marxisti proprio al riguardo dell’invocazione di un diritto diseguale), reputa “moralmente assurdo applicare criteri di eguaglianza formale”.
Un linguaggio d’altri tempi colpisce una personalità come Draghi che a Santa Maria Capua Vetere ha mostrato la sua forte e controcorrente sensibilità liberale. Ma su di lui il “Manifesto” versa parole di fuoco che sembrano alquanto sprezzanti. Secondo Revelli la figura di Draghi è quella di un pericoloso conservatore, di un monopolista della decisione, “che governa con una logica bonapartista”. E per rimarcare il senso della censura etico-politica contro chi guida “il governo del privilegio”, lo raffigura come “il Capo del governo”, che è una formula mussoliniana, non repubblicana. Il ripudio dell’esperienza Draghi è totale e il tono linguistico non può che essere surriscaldato. Quello in carica è infatti il “governo dei padroni”, il governo “di uno solo, di un banchiere”. Al potere opera un novello Bonaparte alla testa di un “vero Comitato d’affari dei potentati economici e finanziari”. Parole molto esplicite che escono dal generico con una precisazione toponomastica: il governo “ha un solo indirizzo di riferimento: viale dell’Astronomia 20”. (Che è l’indirizzo di Confindustria).
Al potere ci sono i padroni ma non la Fiat, che con Marchionne ha sbattuto la porta, e quindi i suoi giornali sono delle oasi di libertà e su quei giornali è possibile scrivere senza crampi nella coscienza. Secondo Revelli, Draghi è la pura e semplice “materializzazione del potere del denaro in una sola persona”. Dove conduce questa requisitoria senza scampo contro la dittatura del denaro che è esercitata da un dispotico potere personale? Per fortuna l’immagine non si spinge sino all’evocazione di un legittimo diritto di resistenza e si ferma alla semplice nostalgia dell’avvocato del popolo con la rampogna recriminatoria per la “crisi di quell’anomalia selvaggia che non avevano mai digerita”.
Nel concreto, i rimpianti sono per il reddito di cittadinanza, per la norma spazzacorrotti, per la Bonafede, per il decreto dignità. Cioè, tutte conquiste epocali ma del governo gialloverde, nel senso che quando al potere c’era il capitano era assai meglio di adesso. Già dato Montanari, già dato Revelli. Il guaio è che anche Letta la pensa come Il Fatto e il Manifesto e il suo cacciavite ha per bersaglio solo Draghi. All’anima del cacciavite.
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