È pienamente condivisibile, affrontando quello che ormai si chiama il “fattore D” (Draghi), rilevare, come icasticamente ha fatto Michele Prospero, il grave errore commesso dalla sinistra nell’uscire, con suoi esponenti, dal Governo Ciampi nel 1993. Altra cosa quanto alcuni sostengono, con l’intento di rafforzare la proiezione dell’attuale Premier verso il Colle, ricorrendo a un’assimilazione dei rispettivi cursus honorum e delle vite professionali, in generale, di Draghi a Ciampi. In effetti, non vi sono le basi per un “plutarchiano” parallelismo. E l’insistenza, come, quella pari fondata sui raffronti con Luigi Einaudi, anche essi privi di adeguato fondamento, finisce con il non essere favorevole proprio a Draghi, che probabilmente non la gradirà e che, comunque, ha titoli suoi propri che vanno valutati.

Ciampi ha percorso la vita di lavoro di poco meno di mezzo secolo in Banca d’Italia, dove era entrato con il grado iniziale per i laureati, quello allora di “volontario amministrativo”, dopo avere brevemente insegnato latino e greco nel liceo di Livorno, essendo egli laureato in lettere a cui seguì la laurea in giurisprudenza. Partendo da quel livello, egli percorse tutti i gradi della carriera con passaggi per merito comparativo fino ad arrivare alla carica di Governatore, con la nomina da parte del Consiglio Superiore dell’Istituto approvata con decreto del Presidente della Repubblica, previa delibera del Governo. Era stato vicino al Partito d’Azione e nell’ultima parte del conflitto bellico aveva partecipato alla Resistenza. Fino a quando non aveva ricoperto incarichi di particolare responsabilità nell’Istituto, era rimasto iscritto al sindacato interno l’”Uspie”, che aderiva alla Cgil. In occasione di un incontro con i sindacati interni, aveva confermato la propria attenzione (si era alla fine degli anni Settanta), verso la sinistra e, più in particolare, nei confronti di quella democristiana, sottolineando, però, l’assoluta indipendenza istituzionale e culturale.

Nel 1993 Ciampi non si era autocandidato, non aspirava a governare; anzi, da tempo aveva preannunciato al Governo, segretamente, l’intento di dimettersi dopo i molti anni dell’esercizio della carica, ricevendone tuttavia il deciso invito a desistere. Quando fu chiamato da Scalfaro per assumere la guida del Governo in un momento assai difficile, egli, che non avrebbe mai accettato un incarico nel “privato”, ritenne doveroso aderire alla richiesta in spirito di servizio, immediatamente dimettendosi dalla carica di Governatore. Non gli passò proprio per la mente di sfruttare le cosiddetta legge Einaudi che dava la possibilità al Governatore investito di cariche di Governo di “mantenere l’incarico” di provenienza per poi tornare a esercitarlo a conclusione del mandato governativo mentre, nel frattempo, veniva sostituito dal Direttore generale. Allorché, nel 1996, si stava formando il Governo Prodi, ebbi modo di incontrare Ciampi – da tempo tornato ad essere Governatore onorario dopo l’esperienza di Governo – nelle sede, in via Tomacelli, dell’Ente Einaudi di cui era Vice Presidente.

Alla mia domanda se fosse stato coinvolto nell’Esecutivo che stava nascendo e all’insistenza se avesse avuto almeno qualche segnale rispose negativamente; poi aggiunse: se vogliono, io sono qui per valutare le eventuali proposte, ma non farò assolutamente nulla, come mai ho fatto, per propormi. Alla fine gli fu prospettata la carica di Ministro del Tesoro, nel periodo dell’adesione all’euro sin dalla prima fase, che accettò, nella certezza di poter fare affidamento anche sulla Banca d’Italia di Antonio Fazio che, con la leva della politica monetaria ancora di totale competenza dell’Istituto, stroncò le aspettative di inflazione e ricondusse gli spread Btp-Bund da circa 800 punti-base sotto i 200, tanto che si parlò, a un certo punto, di Btp “ tedeschi”. È lo stesso comportamento che Ciampi tenne, poi, per l’elezione alla più alta Magistratura dello Stato: per la quale l’iniziativa partì dagli esponenti politici che in questi giorni sono stati spesso menzionati. Nessun approdo al Colle gli era stato “ventilato” ( come qualcuno ha scritto per Draghi, accompagnando la frase con un “forse”) al momento della nomina al Tesoro: un “ventilare” al quale certamente non avrebbe prestato orecchio; né si erano diffuse voci sulla necessità di “tutelare” o “proteggere” l’ex Governatore, né, ancora, si riteneva che quella fosse l’unica scelta che l’Italia potesse compiere in mancanza della quale vi sarebbe stato il baratro.

Si dirà: oggi le condizioni economiche, politiche, sociali e sanitarie sono nettamente diverse da quelle del ‘99 quando Ciampi fu eletto Capo dello Stato. È vero. Ma fino a quale punto i comportamenti possono ritenersi dipendenti esclusivamente dalla diversità, benché sostanziale, delle situazioni? Soprattutto, con questa smania di parallelismi non si nuoce alla stessa persona che viene così dipinta come un “pantocratore”? Sia chiaro il cursus honorum draghiano è denso e prestigioso, si può dire eccezionale. Egli, dopo una lunga carriera nel “pubblico”, approda nel “privato”, alla Goldman Sachs, dalla quale poi esce perché chiamato alla carica di Governatore della Banca d’Italia, segnando il primo caso nella secolare storia dell’Istituto di una provenienza, per quest’ultima carica, dal mondo bancario (ancorché si tratti di una banca estera), sempre impedita fino allora. Poi meritatamente ascende alla Bce.

È universalmente riconosciuto il merito della dichiarazione londinese del 26 luglio 2012 sul salvataggio dell’euro, una dichiarazione che, comunque, veniva dopo che il Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo si era pronunciato favorevolmente agli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca centrale. Il quantitative easing poi introdotto, avendo presente la precedente esperienza americana (e, in parte, inglese), è stato fondamentale. La Vigilanza bancaria, accentrata nella Bce con un accordo intergovernativo che confligge con il Trattato Ue, presenta, tuttavia, ancora molti aspetti da rivedere. Quando si farà la storia di questi anni alcuni “idola fori” appariranno ridimensionati. Ora a Draghi dovrebbe interessare, prima di tutto, di frenare i laudatores e i plauditores che danneggiano le sue aspirazioni e gli interessi generali. Pas trop de zèle. Ha i titoli per andare avanti anche se non come nell’agiografia ricorrente. Dagli amici (per modo di dire) mi guardi Dio, ché dai nemici mi guardo io, dovrebbe essere il suo motto.