Draghi duro con la Nato e lancia il piano energetico a base di carbone

La fonte di intelligence che sta seguendo oramai da giorni l’evolversi dalla guerra in Ucraina mostra nella scelta delle parole tutta la drammaticità del momento. Non solo per il popolo ucraino costretto da una parte ad armarsi (più di 18 mila fucili distribuiti; divieto lasciare il paese per gli uomini tra i 18 e i 60 anni) e dall’altra a lasciare il paese (la stima è di oltre 50 mila persone già in fuga). Anche per il popolo russo contro cui la repressione del dissenso decisa dal Cremlino è dura e senza remore. E per gli oligarchi che iniziano a vedere tagliati i canali finanziari e sono costretti a subire il crollo del rublo.

Per l’Europa e per tutto il sistema delle democrazie occidentali. «La Russia ha violato la pace, ha superato il confine, da parte del Cremlino c’è stata la flagrante violazione dei principi fondanti della Nato» ha detto ieri il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg definendo quella in corso come «la più grande crisi di sempre». Molto duro l’intervento di Mario Draghi alla Nato: «È stato stabilito un punto di non ritorno, l’attacco militare ad una democrazia e un paese sovrano nel cuore dell’Europa, sul confine della Nato. A questo punto, per come si sono messe le cose, non possiamo che andare avanti».

Deciso l’invio di uomini e armi
In questo quadro cupo il Presidente del Consiglio e il governo con mandato pieno da parte del Parlamento, in modo assolutamente compatto e senza distinzioni, hanno deciso le prime importanti mosse. A livello nazionale con un decreto che mette a disposizione del generale Tod D. Wolters, comandante supremo Nato per l’Europa, circa tremila uomini con destinazione soprattutto il confine baltico, Romania e Moldavia. A livello europeo, le varie riunioni avvenute in presenza e da remoto in queste 48 ore, hanno portato ieri sera alla definizione di un pacchetto di sanzioni “massicce e senza precedenti” per l’economia russa decise dall’Unione Europea.

Un pacchetto di misure che si muove in sintonia con il blocco finanziario deciso dalla Gran Bretagna dove Boris Johnson ha annunciato il congelamento dei beni degli oligarchi che hanno scelto Londra come scrigno delle loro fortune. E con Washington che sta agendo nella stessa direzione, blocco commerciale e finanziario. Tutti i paesi che aderiscono all’alleanza atlantica hanno deciso l’invio di uomini e mezzi, ha sottolineato Stoltenberg, «per proteggere ogni centimetro della Nato». Putin «ha fatto un terribile errore strategico e la pagherà cara».

Il decreto
Il decreto approvato all’unanimità ieri in un consiglio dei ministri lampo è stato anticipato dal premier Draghi nelle comunicazioni ai due rami del Parlamento. Dal punto di vista militare, la Nato si è già attivata sulla base dell’articolo 4 del trattato di Washington e ha approvato «cinque piani di risposta graduale che, in questa prima fase puntano a consolidare la postura di deterrenza a est». Le fasi successive, vincolate ad un’evoluzione dello scenario, prevedono «l’assunzione di una postura di difesa» e, in seguito di «ristabilimento della sicurezza». I piani prevedono due aspetti fondamentali: l’incremento delle forze dispiegate in territorio alleato, con il transito delle unità militari sotto la catena di comando e controllo del Comandante Supremo Alleato in Europa; l’utilizzo di regole d’ingaggio predisposte per un impegno immediato.

Le forze italiane impiegate sul campo contano circa 240 uomini attualmente schierati in Lettonia, insieme a forze navali, e a velivoli in Romania; e da altre che saranno attivate su richiesta del Comando Alleato. Sono previsti circa 1400 uomini e donne dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, e con ulteriori 2000 militari disponibili. Le forze saranno impiegate nell’area di responsabilità della NATO e «non c’è nessuna autorizzazione implicita dell’attraversamento dei confini». All’articolo 2 – su un totale di sette – si legge che «per l’anno 2022 è stata autorizzata la spesa di 12 mila euro per la cessione, a titolo gratuito, di mezzi e materiali di equipaggiamento militare non letali di protezione alle autorità governative dell’Ucraina».

Il contingente italiano opererà nell’ambito della Nato Response force che già in questo momento può contare sull’appoggio di «oltre cento jet in stato di massima allerta, circa 120 navi militari alleate dispiegate dal Baltico al Mediterraneo». In più sono all’opera «gruppi tattici» per missioni veloci e mirate. Tutto questo viene definito “Piano di difesa”. Ma è chiaro che impiega molto poco a diventare offensivo. Mai, da quando è stata costituta, la Nato è stata coinvolta fino a questo punto in territorio europeo. Del resto, «Putin ha sconvolto il contesto di sicurezza europeo».

Le sanzioni
I grafici messi a disposizione in queste ore da vari think tank, primo fra tutti l’Ispi, dimostrano che anni di sanzioni quasi mai hanno prodotto gli effetti desiderati. Sanzione fa rima con punizione ma non con correzione. Sessanta anni di sanzioni a Cuba, 43 all’Iran, 16 alla Corea del nord, otto al Venezuela e sette alla stessa Russia dopo l’annessione della Crimea (la prima gravissima violazione del territorio ucraino) non hanno prodotto gli effetti desiderati. Nel senso che i remi hanno continuato a vivere e sopravvivere. Questa volta dovrebbe essere diverso se oltre all’interruzione dei canali commerciali si procederà anche, come spiegava ieri sera Borrell, al congelamento dei canali finanziari.

«Il 70% del sistema bancario russo sarà colpito da sanzioni» ha detto l’alto rappresentante Ue per gli Affari esteri Josep Borrell. Nel mirino anche i capitali e i privati di Putin e Lavrov custoditi all’estero. Il secondo pacchetto di sanzioni prevede sanzioni a politici, militari e funzionari, al sistema bancario, il blocco di alcune esportazioni, il divieto di acquisto del debito russo. Si è discusso molto di escludere il sistema bancario russo dal sistema dei pagamenti internazionali (swift) su cui però sono stati avanzati molti dubbi. Il ministro Franco, in sede di Ecofin, ha chiesto: «E poi come facciano a pagare il gas?». Le sanzioni sulle fonti di energia sarebbero forse l’unica vera arma di pressione su Mosca visto che tra gas e petrolio la Russia sono le prime voci del bilancio.

È chiaro che tutto questo rischia di avere un impatto gravissimo sulla bilancia commerciale italiana e sulle centinaia di imprese italiane – sia nel settore enogastronomico che in quello manufatturiero – che esportano in Russia. Non è un caso che Germania e Italia ieri siano state le più caute nel condividere il pacchetto di sanzioni: insieme rappresentano il 38% dell’intero export della Ue verso la Russia e utilizzano il 38% di tutto il gas naturale trasportato dalla Russia verso la Ue. Di fronte ai primi malumori, Palazzo Chigi ieri sera ha dovuto precisare che «non c’è stata alcuna richiesta di eccezione sulle sanzioni da parte dell’Italia».

Un nuovo piano energetico
Il nodo sanzioni ha inevitabilmente portato Draghi ieri mattina ad affrontare un altro tema urgente per l’Italia: le fonti energetiche di cui siamo sprovvisti. Il gas russo copre il 45% del nostro fabbisogno, «il 27% in più rispetto a dieci anni fa» ha sottolineato Draghi, spiegando come dal 2000 abbiamo ridotto l’estrazione di gas nazionale da 17 miliardi di metri ai circa 3 miliardi di metri cubi nel 2020. Tutto questo a fronte di un consumo nazionale che è rimasto costante tra i 70 e i 90 miliardi circa di metri cubi. «Dobbiamo procedere spediti sul fronte della diversificazione, per superare quanto prima la nostra vulnerabilità e evitare il rischio di crisi future» ha detto il premier augurandosi, anche che «adesso procedano più speditamente i meccanismi di stoccaggio comune, che aiutino tutti i Paesi a fronteggiare momenti di riduzione temporanea delle forniture». È una richiesta che Draghi ha fatto in sede Ue in autunno senza ottenere risposta.

Il governo ha già deciso il potenziamento nell’estrazione di gas italiano. Ora è al lavoro «per aumentare le forniture alternative»: il gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti (su cui Biden ha già dato disponibilità) che però sconta in Italia un limitato numero di rigassificatori in funzione. «Per il futuro, è quanto mai opportuna una riflessione anche su queste infrastrutture» ha auspicato il premier. Il governo intende lavorare «per incrementare i flussi da gasdotti che lavorano non a pieno carico» come il TAP dall’Azerbaijan, il TransMed dall’Algeria e dalla Tunisia, il GreenStream dalla Libia.

Poi dice qualcosa che gela gli ambientalisti: «Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato». La chiave di tutto è l’uso sempre maggiore delle rinnovabili (l’installazione di pale e pannelli sarà molto semplificata). Ma non c’è dubbio che il gas resta essenziale come combustibile di transizione. Detto ciò palazzo Chigi è pronto ad intervenire per calmierare ulteriormente il prezzo dell’energia se fosse necessario.