Leader dell'Europa
Draghi manda a quel paese Bruxelles, altro che servo dell’Europa…
Ma non avevamo detto che lui è un agente europeo? Che ce l’ha imposto spedito direttamente la Von der Leyen per punirci dei nostri peccati e così sia? E che lui deve restare al tavolo di Palazzo Chigi fino alla fine del suo compito di macchina trita impegni con l’Europa (riforme contro denaro contante) in totale sudditanza nei confronti dell’Unione? Credevamo. Ma sbagliavamo. Oppure se per un colpo di genio, Draghi abbia cambiato idea. Fatto sta che, nel giro di pochi giorni il primissimo ministrissimo ha fatto la mossa più sconsigliata nell’arte strategica: ha aperto un secondo fronte senza avere chiuso il primo. Anzi, ne ha aperto un secondo dopo aver aumentato la pressione sul primo, come se si sentisse leggermente onnipotente. Infatti, prima ha sbattuto la porta in faccia ai sindacati che chiedevano soltanto di poter rappresentare con scioperi e sbandieramenti, la frustrazione confederale dei lavoratori italiani, prima della seconda mossa.
Quello dei sindacati era in fondo solo un problema di visibilità, un happening collettivo di quelli di cui la vita sindacale, anche se inutilmente, cerca di mostrare la propria esistenza in vita. Draghi non può non saperlo e tuttavia ha scelto di non concedere spazio neanche di palcoscenico. Ha chiuso tutte le porte, cancellato la riunione che era stata già ventilata, giù a muso duro. Con quale risultato? Un’onda anomala di sconcerto. E anche una discreta rabbia da frustrazione, E questo era il vecchio fronte con i rappresentanti sindacali che vorrebbero mettere bocca su tutto e che per mestiere devono dire che qualsiasi provvedimento non è perfetto, “forse siamo sulla buona strada ma scioperiamo lo stesso”. La porta in faccia inflitta da Draghi è stata vissuta non soltanto a destra come anche da una parte buona parte del paese, come la messa al bando degli insaziabili seccatori.
Ma poi è arrivato il secondo fronte, aperto con l’Europa che nessuno si aspettava con un vincente effetto di contropiede. Draghi ha blindato le frontiere e ha introdotto una protocollo separato nella procedura per l’ingresso in Italia dagli altri Paesi europei in tempi di Covid, adottando le procedure nel Regno Unito: chi vuole entrare in Italia dovrà essere super vaccinato, tamponato, quarantenato, passato al microscopio e scoraggiato dell’affacciarsi sul Bel Paese. L’Europa è impazzita dalla sorpresa, “al borde de un ataque de nervios”: che cosa pensa di fare l’Italia? Adotta misure non concordate e quindi ribelli come se fosse una Polonia qualsiasi? È stata una levata di scudi che Mario Draghi aveva ben calcolato e che gli ha permesso di presentarsi come il campione dell’interesse italiano persino di fronte all’Europa di cui è figlio ed emissario. La reazione era non soltanto prevista ma faceva parte del suo piano che gli ha permesso di mostrarsi di fronte al Paese di cui è alla guida (essendo Mattarella in scadenza) come la guida suprema. Un Primo Cittadino, anziché un primo ministro. Cioè un Capo di Stato. Prima dell’inizio del grande carosello delle elezioni del Presidente, ha di colpo trasferito il Quirinale a Palazzo Chigi, dimostrando come sia per lui del tutto indifferente l’altezza sul livello del mare – colle o pianura – della poltrona su cui siede.
La decisione presa è stata utilissima per mostrare una patriottica inflessibilità con largo uso della sua retorica che oscilla fra lo charmant e l’intimidatorio, somigliando parecchio a Macron, perfetto ritratto dell’uomo solo al comando, o del cancelliere prussiano: un genere di leader che l’Italia non ha mai sperimentato in era repubblicana ma di cui ha spesso manifestato il desiderio e che adesso sta sperimentando in dosi da cavallo. Draghi in Parlamento ha difeso il livello di sicurezza raggiunto dall’Italia grazie agli sforzi dei suoi cittadini tallonati da un governo che li spedisce alla vaccinazione in tutti i modi e che grazie a questa politica ha ottenuto risultati i buoni, talvolta eccellenti. E ha rivendicato dunque la propria caparbietà nel dire di no a tutti, e sì soltanto al piccolo circolo di intelligenti di cui si fida, come nella Repubblica di Platone ormai entrata in Costituzione.
Lo dichiara: avendo creato un tesoretto di sicurezza che può svanire in un attimo se si sbaglia mossa, Draghi ha con modestia eletto se stesso “Patrimonio dell’Umanità” con felice interscambio fra soggetto (Draghi) e oggetto (il popolo italiano) per poter dire che non permetterà a nessuno di mettere a rischio il tesoretto solo per una stupida questione di buone creanze europee di cui – lui! – se ne infischia: “Non permetteremo, a nessuno di sprecare il sacrificio degli italiani” nella guerra al Covid soltanto per mantenere l’unità di facciata dell’Europa. Insomma, ha detto che l’Italia – cioè lui – fa e farà, se messa alle strette, come cavolo le pare piace e che tutti gli altri per favore facciano la cortesia di non romperle le scatole.
È stato quindi un discorso nazionalista in senso moderno sia pure di un nazionalismo difensivo. E però nelle conseguenze, di fatto, anche aggressivo perché equivale a infliggere una penalità ai vicini europei. Siamo di fronte a un carattere nazionalista classico gradito al senso comune, secondo cui il bene della nazione viene prima di quello della comunità: l’Italia come una nuova Prussia efficace, efficiente e inflessibile, deve poter godere dei buoni frutti della sua (di Draghi) ordinata disciplina, diventando anzi un buon esempio per gli altri. È un ragionamento e un atteggiamento che – nella forma – non diverge moltissimo da quello della Polonia almeno nell’aspetto formale. Ma poiché l’Italia non è la Polonia e Draghi è quel gentiluomo che ha schiaffeggiato “un piccolo dittatore” che non aveva offerto la sedia alla Presidentessa Von der Leyen, il suo colpo di testa ha avuto e sta avendo un forte effetto sulla Comunità.
Draghi, mentre fa le prove di un presidenzialismo italiano, accentua quelle caratteristiche che da tempo lo accreditano di fatto. Come possibile leader unico dell’Europa di fronte a Stati Uniti, Russia e Cina, contando almeno quanto la Merkel e aspettando di vedere chi e se succederà a Macron all’Eliseo. Naturalmente lo strappo sarà presto ricucito con abbracci e baci e si fingerà che non sia successo nulla, mentre la forma ha superato i limiti della sostanza. Con la sua voce quasi inespressiva e invece altamente emotiva ha puntato sulla prevalenza dell’interesse italiano ribadendo che l’Italia non è disposta a rinunciare a un millimetro della sicurezza raggiunta di fronte alla dilagante e non domata epidemia.
Ha agito sul fronte europeo con la stessa distaccata e appena un po’ sprezzante determinazione, come fa in Italia con i sindacati ma anche con i politici. Se c’è un problema, organizza un tè delle cinque che permetta all’interlocutore di sentirsi gratificato dall’attenzione. Poi, quando tutti hanno in mano la tazza, lui se ne va per un impegno più importante, e la seduta è tolta. Resta da accapigliarsi su un solo punto: strategia calcolata al millimetro, o esercizio di carattere estemporaneo. Inutile rompersi la testa. L’effetto è lo stesso. Draghi diventa un capo, Draghi diventa un caso.
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