Il falso parallelo
Draghi non è come Andreotti: l’unità nazionale si basava sui partiti, oggi sul loro fallimento

La formazione del governo Draghi è stata accompagnata dall’evocazione di un termine tanto impegnativo quanto sfuggente: unità nazionale. È stato scritto che le forze politiche, consapevoli del momento drammatico che sta vivendo il Paese, si sono convinte a mettere da parte divisioni e asperità per corrispondere all’appello del capo dello Stato e dare finalmente un contributo decisivo per uscire dalla pandemia e impostare la ripresa economica.
È lecito chiedersi se le cose stiano realmente in questi termini e quali siano i precisi contorni di questa operazione. Poiché nella tradizione politico-parlamentare italiana il termine non è affatto nuovo, può essere utile tracciare un parallelismo storico per provare a soddisfare questi interrogativi. Come è noto, la mattina del 16 marzo 1978, il tragico giorno in cui venne rapito Aldo Moro e trucidata la sua scorta, il nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti si presentava in Parlamento per chiedere la fiducia. Di fronte a questo drammatico evento le procedure parlamentari subirono una brusca accelerazione e l’Esecutivo ottenne rapidamente la fiducia di entrambe le Camere. Era un monocolore Dc, che si reggeva su un’amplissima maggioranza assicurata dal voto favorevole di Pci, Psi, Psdi e Pri. Si insediava così il primo governo di unità nazionale dai tempi dei governi Parri e De Gasperi, in carica tra il 1945 e il 1947.
Le peculiari circostanze in cui prese avvio il governo Andreotti IV non devono farci dimenticare quanto quella stagione politica fosse stata lungamente preparata e favorita, in particolare per opera di Enrico Berlinguer e Aldo Moro. Il primo fin dal 1973 aveva avviato una riflessione sulla necessità di un incontro tra le masse cattoliche e comuniste, in nome dei comuni valori della resistenza antifascista, per dare una risposta democratica alle nuove istanze che emergevano dai mutamenti della società italiana e soprattutto per assicurare alcuni efficaci rimedi ai principali problemi che la prima parte degli anni Settanta aveva portato all’attenzione del Paese: un’economia pericolosamente in procinto di entrare nel tunnel della stagflazione e un rischio di involuzioni autoritarie pretestuosamente favorite dal moltiplicarsi di continui disordini di piazza.
Questa riflessione, ulteriormente alimentata dal golpe di Pinochet in Cile, si manifestò con tre articoli pubblicati nell’autunno di quell’anno su Rinascita, la rivista culturale del Pci, con cui Berlinguer lanciò la proposta del “Compromesso storico”: appunto, un inserimento nell’area di governo del Partito comunista, compartecipe delle maggioranze parlamentari e delle compagini governative. Una proposta dirompente, dentro e fuori il partito, che ovviamente aveva bisogno di tempo per maturare. Il punto di svolta furono le elezioni politiche del 1976.
L’elettorato si polarizzò fortemente sui due partiti maggiori, a scapito del Partito socialista e dei Laici. La mera riproposizione di una classica maggioranza di Centro-sinistra apparve subito difficile, ma non meno arduo sarebbe stato far accettare ai rispettivi elettorati una fattiva collaborazione tra Dc e Pci, che ovviamente si erano presentati come alternativi alle elezioni. In quel momento il sistema politico uscì dall’impasse facendo leva sulla flessibilità istituzionale consentita dalla Costituzione, ovvero con il governo della “non sfiducia”: un monocolore Dc, presieduto da Andreotti, che in Parlamento si reggeva sui voti favorevoli del solo partito di maggioranza relativa e sull’astensione di un amplissimo spettro di forze che andava dai Comunisti ai Liberali.
Questo delicato equilibrio durò circa un anno e mezzo, un periodo di tempo che venne utilizzato dal presidente della Dc Aldo Moro, che più di tutti nel suo partito aveva prestato attenzione alla proposta di Berlinguer, per far decantare la situazione e per preparare il passaggio ulteriore: l’esplicito ingresso dei Comunisti nella maggioranza. Così, all’inizio del 1978 il governo della “non sfiducia” entra in crisi. Moro e Berlinguer guidano i rispettivi partiti, e le opinioni pubbliche di riferimento, verso la formazione di un nuovo governo, senza ministri del Pci ma con i Comunisti organicamente inseriti nella maggioranza parlamentare. Un nuovo monocolore democristiano, che proprio Moro volle presieduto ancora da Andreotti per dare un segno di continuità di fronte a un’operazione così innovativa e guardata con legittimo sospetto da ampi settori della società italiana, del suo partito e dal sistema di alleanze internazionali in cui eravamo collocati. Nasceva così il governo di “unità nazionale” che si presentò alle Camere quella fatidica mattina del 16 marzo 1978.
Ebbene, al di là delle più articolate opinioni che chiunque può avere su quella stagione, le sue premesse concettuali, i risultati ottenuti o mancati, la brevità che la caratterizzò (si dissolse con le elezioni anticipate del 1979), non vi è dubbio che si trattò di un esempio di alta politica, un momento in cui i partiti sentivano di avere un rapporto di rappresentanza con l’opinione pubblica ancora talmente radicato da potersi permettere di proporre formule politiche ardite e non facilmente gestibili, ma di prepararle con una semina intellettuale che avrebbe potuto dare frutti solo a medio termine. Insomma, un’assunzione di responsabilità da parte del ceto politico, un farsi carico dei problemi per cercare soluzioni nuove, equilibri più avanzati, consensi trasversali. Dunque, una stagione certamente non esente da aspetti discutibili ma in cui le élite politiche esercitavano un ruolo di traino, di vera leadership, tutt’altro che meramente mediatica, anzi quanto mai concreta e riconosciuta. Una politica in cui era ancora possibile distinguere tra posizionamenti tattici contingenti e visioni strategiche di ampio respiro che riflettevano una visione dell’Italia e dell’indirizzo che le si voleva imprimere.
Tornando ai nostri giorni, non si può non rilevare come invece il governo Draghi nasca sulle macerie di una legislatura alquanto bizzarra, in cui il sistema dei partiti ha ripetutamente cercato soluzioni spregiudicate e di pronto utilizzo, fondate più su calcoli di convenienza immediata che sulla condivisione di progetti strategici, fallendo nel tentativo di assicurare stabilità e continuità, nonostante la sperimentazione di una strada mai battuta prima forse in nessun Paese a democrazia stabilizzata: affidare la guida dell’Esecutivo alla stessa persona pur mutando indirizzi programmatici, maggioranze parlamentari e compagini ministeriali. Un capolavoro di trasformismo che fin troppo scopertamente mostrava di avere il respiro corto. Alla fine proprio questa propensione a non attribuire alcuna valenza reale alle prese di posizione ha finito per inghiottire se stessa. L’ultimo giro di valzer in Parlamento è fallito e ha causato un capitombolo dei ballerini.
Il discorso del presidente Mattarella al Quirinale, la sera del conferimento dell’incarico a Draghi, ha posto la parola fine su questi giochi di potere e ha chiamato in campo le “riserve della Repubblica”, basti pensare al nuovo presidente del Consiglio o alla ex presidente della Corte Costituzionale. Un’extrema ratio cui nella recente storia politica italiana si fa ricorso quando il sistema dei partiti fallisce ai suoi compiti essenziali. Il fatto che nella compagine governativa siano presenti un gran numero di esponenti politici dimostra semmai che i “due Presidenti” hanno ritenuto opportuno battere la strada della corresponsabilizzazione diretta delle forze politiche, per evitare lo sgradevole spettacolo dello scarico di responsabilità che i partiti misero in atto con il governo Monti.
Dunque, è corretto affermare che oggi ci troviamo di fronte a un governo di unità nazionale, che addirittura vede rappresentate contemporaneamente in Consiglio dei ministri forze politiche talmente antitetiche da giurare fino a pochi giorni fa che mai e poi mai avrebbero governato insieme, e tuttavia si deve tenere presente che con questa espressione si possono intendere operazioni politiche dai caratteri opposti: la politica che guida e la politica che subisce; i partiti che rappresentano e interpretano i bisogni della società e i partiti che non riescono a dare una prospettiva. Credo che questa sia una chiave da tenere ben presente nei prossimi mesi per dare una lettura realistica della vita del governo Draghi.
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