Ho letto con l’attenzione che merita il Rapporto sul “Futuro della competitività europea” curato da Mario Draghi. Il nostro statista più autorevole (Marco Travaglio se ne faccia una ragione) ha aperto una finestra in una stanza piena di fumo. La stanza piena di fumo è quella dei sovranismi e degli egoismi nazionali. Non solo un monito, come è stato scritto, ma un sonoro ceffone alle burocrazie politiche di Bruxelles e ai governi di cui sono espressione. Ovviamente, da noi non è stato gradito dal partito trasversale dell’assistenzialismo e dei bonus, mentre il principale partito dell’opposizione, almeno fin qui, tace. Eppure la cifra del documento di Draghi si può riassumere in una proposizione: occorre rilanciare un riformismo europeo dinamico e condiviso, oppure siamo destinati a soccombere nell’arena globale.
Il termine riformismo
Mi sia consentito ricordare, allora, che il termine riformismo ha un’origine storica precisa. Viene introdotto in Inghilterra, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, nel corso della campagna per l’allargamento del suffragio universale culminata nel “Great reform bill” del 1832, che ampliava l’accesso al voto dei ceti borghesi. La sua nascita, dunque, è legata alla storia della democrazia rappresentativa. Verrà poi usato in contrapposizione al massimalismo rivoluzionario, per designare le politiche di welfare state delle socialdemocrazie europee. La prospettiva di un’economia pianificata e di una società senza classi cede quindi il passo a una concezione secondo cui il capitalismo non va abbattuto, ma “civilizzato” attraverso correzioni graduali delle sue storture e delle sue disuguaglianze.
Tutto rimesso in discussione
In questo senso Eduard Bernstein diceva che “il movimento è tutto e il fine è nulla”. Ora, nel vocabolario della sinistra italiana il termine riformismo è uno dei più inflazionati e polisemici. Con la fine dei vecchi simboli e delle vecchie appartenenze di quel che fu il movimento operaio non sono mancati i tentativi di aggiornarne il significato facendo i conti con le nuove sfide di un mondo in cui tutto era rimesso in discussione: equilibri planetari, sovranità statali, blocchi sociali, modelli di sviluppo, modi di formazione della coscienza individuale e collettiva. Il Pd è stato creato proprio con l’ambizione di unificare la tradizione socialista, in tutte le sue famiglie; quella laico-democratica e quella cattolico-popolare. Ma, alla prova dei fatti, “l’amalgama è mal riuscito” (copyright di Massimo D’Alema). E ancora oggi si presenta come un involucro dove coesistono molte cianfrusaglie retoriche di cui i suoi fondatori non si sono mai liberati fino in fondo mediante severi bilanci critici.
La distinzione
Del resto, una forza riformista si distingue per le sue idee, la sua capacità di proposta, il costume dei suoi gruppi dirigenti, e non perché considera i programmi alla stregua della promozione pubblicitaria di un prodotto, a cui non si chiede tanto di essere credibile, ma gradevole. In altre parole, un partito non può vivere senza princìpi e senza una cultura politica trasparente che orienti le sue grandi scelte. Forse così può anche tirare a campare, ma si espone inevitabilmente al rischio dell’opportunismo più disinvolto: per cui si può scoprire, in base alle convenienze del momento, favorevole o contrario al bicameralismo perfetto, proporzionalista o maggioritario, ecologista o industrialista, federalista o centralista, liberista o statalista, garantista o giustizialista. Il dovere del riformismo è quello di fare le riforme, non di stare a Palazzo Chigi a prescindere, come direbbe Totò. Altrimenti esso indica un semplice recapito, un nome che tutt’al più richiama l’albero genealogico: racconta da dove si viene, non dove si vuole andare. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, diventa rassegnazione allo stato di cose esistente spacciata per realpolitik.