Partiamo dalla fine. Perché in queste poche righe della sua introduzione al Piano nazionale di ripartenza e resilienza, Mario Draghi spiega il senso del suo stare a palazzo Chigi. «Il Pnrr è parte di una più ampia e ambiziosa strategia per l’ammodernamento del Paese. Il governo intende aggiornare e perfezionare le strategie nazionali in tema di sviluppo e mobilità sostenibile; ambiente e clima; idrogeno; automotive; filiera della salute. L’Italia deve combinare immaginazione e creatività a capacità progettuale e concretezza. Il governo vuole vincere questa sfida e consegnare alle prossime generazioni un Paese più moderno, all’interno di un’Europa più forte e solidale».
L’accountability, l’affidabilità, dell’uomo, la sua storia e il suo prestigio internazionale fanno il resto. È stato detto tante volte: quella del Pnrr è l’ultima occasione per l’Italia per uscire da vent’anni di immobilismo, tornare a piacere e a piacersi, un paese di opportunità ma anche di solidarietà che lavora per ridurre il più possibile le disuguaglianze. Nella sua introduzione Draghi, sei pagine, asciutta come è lo stile dell’uomo, snocciola tutti i numeri che servono per descrivere l’handicap dell’Italia: «La crisi – scrive il premier – si è abbattuta su un Paese già fragile dal punto di vista economico, sociale ed ambientale. Tra il 1999 e il 2019, il PIL in Italia è cresciuto in totale del 7,9 per cento. Nello stesso periodo in Germania, Francia e Spagna, l’aumento è stato rispettivamente del 30,2, del 32,4 e 43,6 per cento. Tra il 2005 e il 2019, il numero di persone sotto la soglia di povertà è salita dal 3,3 per cento al 7,7 per cento della popolazione – prima di aumentare ulteriormente nel 2020 fino al 9,4 per cento». L’introduzione del Piano è ricca di numeri e percentuali. Ma bastano questi per capire perché adesso o mai più. Perché il premier non intende fallire. E perché farà di tutto per smontare sul nascere ogni tentativo di “uso politico” del Pnrr da parte delle forze di maggioranza. E di opposizione. Inizia così oggi un percorso parlamentare che in una settimana porterà alla consegna del Piano a Bruxelles. Entro il 30 aprile. Come da cronoprogramma fissato dalla Commissione. Perché anche la puntualità deve diventare un tratto del nuovo corso del sistema Italia a guida Draghi.
Il Consiglio dei ministri è slittato da ieri pomeriggio a questa mattina ore 10, poi ancora una volta rimandato al pomeriggio. Non c’è una causa specifica. Se non che, spiegano fonti vicine al dossier, «il piano in sé con relative tabelle è un lavoro enorme che necessita ancora di limature e aggiustamenti». Le bozze che sono circolate ieri e su cui si sono già esercitate le varie tifoserie, sono quindi provvisorie. Tanto per dirne una, il Superbonus al 110% che è il feticcio del Movimento 5 Stelle e di un pezzo di Pd che lo vorrebbero prorogato fino a tutto il 2023, non sarà incluso nel Pnrr. È una decisione che farà molto discutere e fibrillare la maggioranza ma questa è la decisione del Mef, il ministero economico e finanziario dove opera la cabina di regia del Piano, il ministro Franco e la task force dell’ex capo della ragioneria Di Nuzzo.
Il luogo delle scelte e delle decisioni finali. Anche questa centralità non piace ai partiti. Né agli enti locali. Che però avranno l’onore e l’onere delle sorveglianza e del monitoraggio dell’esecuzione dei singoli progetti. È noto che la regola madre del Recovery fund è che i soldi saranno elargiti in base allo stato di avanzamento dei lavori. Dunque il monitoraggio e l’esecuzione dei progetti sono fondamentali tanto quanto la selezione dei progetti. Già, i soldi. Sono tanti e non sono un tesoretto ereditato per caso. Sono per lo più un debito che va investito, messo a frutto e non sprecato: in tutto sono 122,6 miliardi. Il nuovo Piano Marshall dopo la guerra mondiale contro la pandemia.
Tre sono, al momento, gli argomenti che agitano i malumori dei partiti. I fantasmi contro cui dovranno combattere e fare muro nelle prossime ore Draghi e il gruppo di ministri tecnici più coinvolti nel Piano (Franco, Colao, Giovannini, Cingolani, Messa e Bianchi) che sono sempre di più un governo dentro il governo. Le soluzioni individuate non sono morbide. Il Movimento 5 Stelle dovrà al momento fare un passo indietro sul Superbonus del 110%: esce dal Recovery plan ed è rinviato a settembre alla Legge di Bilancio. Sarà quella la sede più idonea a quel tipo di intervento. Non il Recovery che non può ospitare bonus che sono la negazione stessa dell’intervento strutturale. La proroga del Superbonus da sola vale 10 miliardi. Il ministro Franco lo ha spiegato con la forza dei numeri e ha suggerito una valutazione successiva, a settembre, «dopo un attento esame sugli effetti economici della misura». Stessa sorte dovrebbe toccare ai 5 miliardi per il cashback, un’altra misura che il Mef giudica non proprio utile a combattere l’evasione e vantaggiosa, in questa fase, per chi ha già soldi da spendere.
Un passaggio molto stretto, già emerso nei numerosi incontri che Draghi e il governo hanno avuto nella settimana passata con i partiti e gli enti locali, riguarda la selezione dei progetti. La corsa ad infilare progetti fermi nei cassetti da anni o perchè bloccati dalla burocrazia o perchè senza i soldi sufficienti, è stata stoppata dalla doccia fredda del “canale parallelo già finanziato con 30 miliardi”. I progetti non idonei al Recovery seguiranno questa strada parallela che lo Stato è disponibile a finanziare ma il Parlamento dovrà dimostrare di essere capace di portare fino in fondo. Fino all’apature dei cantieri. Ci saranno oltre pressioni, nel Consiglio dei ministri di stamani e in Parlamento nei prossimi giorni, per levare e mettere un progetto al posto di un altro. Ma anche in questo il criterio è stato fissato dal Mef e dalla cabina di regia e non saranno ammesse deroghe.
“Già così così ci sono molti progetti della Lega, altri ne aggiungerò cammin facendo” ha promesso Salvini sempre di più nella doppia modalità di lotta e di governo con la Meloni che lo sta tallonando nei sondaggi. Fratelli d’Italia avrà davanti a sè “praterie” su questo tema. E le userà tutte pur di strappare consenso. Così come Giorgia Meloni ha già iniziato ad attaccare l’eccesso di centralità nella gestione del Piano, la famosa governance su cui iniziò il crollo del governo Conte 2. E’ il terzo motivo di forte dissenso. Che Draghi ha risolto così: “La Cabina, istituita presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha il compito di verificare l’avanzamento del Piano e i progressi compiuti nella sua attuazione e di proporre l’attivazione dei poteri sostitutivi, nonché le modifiche normative necessarie per la più efficace implementazione delle misure del Piano”.
Il ministero dell’Economia e delle finanze – Dipartimento della Ragioneria Generale dello Stato, “ha il ruolo di coordinamento e monitoraggio centralizzato per l’attuazione del PNRR e di punto di contatto unico della Commissione europea. Le amministrazioni locali dovranno occuparsi dell’attuazione dei singoli interventi che “saranno attuati con le procedure già esistenti, ferme restando le misure di semplificazione e rafforzamento organizzativo che saranno introdotte”. Il Parlamento avrà un ruolo “attivo”. Il governo auspica “resoconti periodici nei cinque anni di attuazione del Piano”. Draghi tira dritto. Non si può perdere altro tempo. Il governo di unità nazionale, quello che il presidente Mattarella aveva auspicato come unica soluzione per uscire dal pantano, dovrà dare prova di responsabilità e unità. Gli esami iniziano stamani, in questo primo tempo di una Consiglio dei ministri che si apre questa mattina ma non arriverà ad un voto finale. Prima il premier deve spiegare la mission al Parlamento.
Lunedì pomeriggio (ore 16) alla Camera, discussione generale, martedì mattina (ore 11) la replica di Draghi. Nel pomeriggio al Senato. Vedremo come andrà il dibattito. Poi ci sarà un nuovo consiglio dei ministri per l’approvazione finale. Venerdì prossimo il PNRR italiano sarà inviato a Bruxelles. E’ la settimana chiave per Draghi. La sfida si gioca qui e adesso. Il PNR avrà un impatto sul Pil nel 2026 “di almeno 3,6 per cento più alto rispetto all’andamento tendenziale”, mentre l’effetto sull’occupazione sarà quasi di tre punti percentuali. Nella bozza, parziale, di 318 pagine viene illustrato un “ambizioso progetto di riforme”: “quattro importanti riforme di contesto”, pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza, alle quali si aggiungono la modernizzazione del mercato del lavoro, il rafforzamento della concorrenza nel mercato dei prodotti e dei servizi e la riforma del fisco, anche in chiave green. Tra gli obiettivi 228mila posti in più nell’offerta per la prima infanzia, un hub del turismo digitale, interventi ad hoc per Roma in vista della Ryder Cup del 2022 e del Giubileo del 2025. Per la Salute, “tutta da rifondare” sono previsti 19,72 miliardi. Nelle prime bozze del Conte 2 c’erano solo 6 miliardi.