Aveva 37 anni, Isabella. Gli ultimi mesi della sua vita li ha vissuti in carcere consumando le giornate come consumava le sigarette, fumate una dietro l’altra per impiegare il tempo in una delle tre celle che divideva con altre sette detenute del reparto psichiatrico del carcere femminile di Pozzuoli. Tutto questo fino a ieri, quando una crisi respiratoria ne ha causato la morte. A nulla sono valsi i tentativi di rianimarla del personale sanitario del carcere, a nulla sono valsi i tentativi dei medici del pronto soccorso.
Ora il nome di Isabella P., nata a dicembre del 1983 a Torino, è un nome in più nell’elenco dei detenuti morti in carcere. Per cause naturali, certo. Ma in condizioni che spingono ancora una volta a chiedersi se davvero sia necessario tenere in cella persone fragili perché psicologicamente instabili, affette da patologie che minano la loro salute mentale e fisica. Isabella era detenuta per accuse di furto e oltraggio. E a questo punto della sua storia viene da porsi anche una seconda domanda: furto e oltraggio possono considerarsi reati che impediscono la possibilità di accedere a una misura alternativa al carcere? Sicuramente anche con assistenza e cure garantire al meglio, un carcere resta sempre un carcere: dovrebbe essere l’extrema ratio e finisce spesso per continuare a essere il contenitore dove confinare soggetti di cui la società fa fatica a prendersi cura in modo diverso.
Isabella era una detenuta del carcere di Bologna e in quello femminile di Pozzuoli ci era arrivata a settembre scorso per starci temporaneamente, solo il tempo che nel carcere di Bologna si competessero i lavori di ristrutturazione. Sarebbe stato questione di settimane e Isabella sarebbe tornata nella struttura emiliana, era stata anche già fissata la data del rientro. E invece il destino ha messo un punto a tutto: alla sua giovane vita, alle trafile giudiziarie e burocratiche, alle cure e alle crisi, alle sigarette fumate una dietro l’altra per provare a ingannare il tempo e la malattia. Appena un mese fa il garante regionale della Campania, Samuele Ciambriello, aveva sollevato il tema della tutela della salute mentale in carcere, presentando un report con dati e cifre per descrivere una realtà piena di criticità. Perché non in tutte le carceri ci sono sezioni specializzate per ospitare al meglio detenuti con patologie psichiatriche e perché i ricoveri sono spesso lunghi finendo per diventare una sorta di “ergastolo bianco”.
A tutto ciò si aggiunga che anche nelle strutture più attrezzate si verifica una compressione dei diritti individuali. La condizione di reclusione, lo stato di privazione della libertà, la condizione di dipendenza in cui il detenuto è costretto a vivere anche per far fronte alle più elementari necessità del vivere quotidiano sono fattori che condizionano la sfera psicologica e, nei casi di patologie pregresse, si sommano a tali patologie rendendo difficile, talvolta impossibile, la compatibilità tra salute mentale e reclusione in cella. Nell’ultimo anno si sono contati circa mille detenuti con disagi mentali negli istituti normali e 1.200 detenuti in istituti specifici.
Schizofrenia e disturbi psicotici, disturbi d’ansia e psicosi indotte dall’uso di particolari sostanze, disturbi dell’umore e della personalità sono tra le patologie più diffuse all’interno delle celle. Ma il vero problema restano i tempi: il soggiorno nelle sezioni cliniche di salute mentale dovrebbe durare pochi mesi per poi continuare con programmi terapeutici e riabilitativi da eseguirsi sul territorio, invece – come denunciato dal garante Ciambriello – «i detenuti che transitano in questi spazi vi restano in maniera cronica, come a scontare un ergastolo bianco».