Editoriali
Due bandiere per una Festa

Due tricolori per una stessa Festa. Uno è issato dai bracci delle autogru davanti all’Altare della Patria, l’altro si srotola nella folla lungo Via del Corso.
Tutto accade a Roma, appena qualche minuto di differenza. La Festa della Repubblica celebra con il Presidente Mattarella il rito fondante all’Altare della Patria e poco dopo, la via che da Piazza del Popolo porta a Piazza Venezia si riempie della manifestazione del centro-destra.
Sono due immagini diverse che raccontano di un Paese unito e diviso, che nel giorno che più si richiama alla concordia nel nome della Repubblica manda un segnale che introduce comunque una crepa nello specchio tricolore e lo sdoppia.
Al Vittoriano accade quello che deve accadere.
Il Presidente della Repubblica depone la corona davanti al sacello del Milite Ignoto, il silenzio rotto soltanto dall’esecuzione dell’Inno d’Italia, dall’assolo della tromba fuori ordinanza e dal cicaleccio dei fotografi.
Stavolta Mattarella, come accadde il 25 aprile, non ci lascia l’immagine lapidaria e intensa della sua solitudine nella grandezza marmorea del monumento. Lo accompagnano ministri, ufficiali, cerimonieri, segretari, tutti con la mascherina e a rigoroso distanziamento, i segni che ricordano il tempo che stiamo vivendo.
Va in scena un protocollo, niente discorsi, solo situazioni e gesti di un rito che si offre nel suo carico simbolico, con il fondale del grande Tricolore che fronteggia l’Altare (e in verità copre anche tutti i macchinari del cantiere della Metropolitana). Il discorso il Presidente lo ha fatto la sera prima, quando ha richiamato allo spirito comune oltre le divisioni che permise di uscire dalla guerra e avviare lo sviluppo del Paese, “serve l’unità morale che fu il cemento della rinascita nel Dopoguerra e che viene prima della politica. (..) Sono convinto che insieme ce la faremo. Che il legame che ci tiene uniti sarà più forte delle tensioni e delle difficoltà”. Unità, concordia, una comune “volontà di ripresa e di rinascita, civile ed economica”. Quello che deve dire un Presidente della Repubblica nel giorno della Festa ai pezzi riottosi e divisi, fra di loro e all’interno di ciascuno, del governo e degli schieramenti della politica. La retorica della Repubblica oggi è questa.
Mattarella sale, depone e ridiscende salutando sempre mantenendo la distanza e se ne va, un aereo lo aspetta per il viaggio verso Codogno, assurto in questa giornata a luogo emblematico di un’emergenza in cui tutto il Paese è stato coinvolto.
Passano pochi minuti e la scena cambia.
Siamo a Piazza del Popolo, inizia da lì il corteo che con Salvini, Meloni e Tajani srotola un altro Tricolore di cinquecento metri, procedendo verso il perimetro dei palazzi istituzionali.
L’atmosfera è completamente diversa. I tre apripista sono fedeli alla loro immagine, Salvini è in maniche di camicia e jeans, Giorgia Meloni un giacca celeste sui camicia bianca aperta e calzoni blu, Tajani in completo blu, camicia bianca anche per lui senza cravatta. Non doveva essere una vera e propria manifestazione, piuttosto un sit-in presentato con un paradossale invito a restare a casa che però non ha convinto del tutto perché la ristrettezza della via rende ancora più intenso il concorso di chi è venuto e si accalca attorno ai tre, con mascherine che vanno e vengono e le distanze che proprio non sono sociali.
Avanzano lentamente, tra cori e grida che se la prendono con Conte, chiedono dimissioni ed elezioni subito, cantano l’Inno d’Italia, invocano libertà.
E intanto diventa protagonista il selfie, Salvini in particolare passa da uno scatto all’altro ed è paradossale sentire sovrapporsi la richiesta della cassa integrazione e la preghiera di una foto.
Alla fine i tre si trovano in un recinto circondato da fotografi, operatori, giornalisti col microfono. Fra un collegamento e l’altro, dicono delle motivazioni della giornata. Parlano di popolo, di Italiani dimenticati, nessuna contrapposizione e divisione, “Se il 25 aprile – dice Salvini – sventolano le bandiere rosse, perché non si può manifestare il 2 giugno e poi oggi qui c’è solo il tricolore”, rilancio della collaborazione a nome di chi resta indietro, “le partite Iva, gli autonomi, i commercianti, i lavoratori”, “pronti a portare il Parlamento una parte delle soluzioni”, in nome della libertà e contro la burocrazia, per i cantieri da riaprire, per il lavoro che riparte e per la tregua fiscale.. “Rilancio vero – dice Meloni – per affrontare i problemi reali”.. Tajani sembra più discosto e Berlusconi ha rimarcato di avere aderito, ma non promosso.
Insomma, sono lì, a rappresentare come dicono i cartelli, “L’Italia che non si arrende” e inevitabilmente lo slogan, la sintesi propagandistica e la retorica del momento prevalgono sull’analisi e la riflessione articolata, perché quello che conta è il messaggio che vuole dare questa sortita proprio nel giorno della Festa della Repubblica, essere presenti, farsi vedere e sentire in attesa che qualcuno ascolti.
Fa un certo effetto passare dalla scena dell’Italia del Presidente e dell’Altare che è di tutti a un pezzo della politica del Paese che issa solo il Tricolore e rivendica un ruolo attivo nell’emergenza e nei decreti del governo.
Non c’è una retorica della contrapposizione brutale, anzi i toni non debordano nell’esprimere una posizione che è politica e, in questa giornata, affronta il paradosso della parte che si fa carico di un interesse generale. Restano queste bandiere che dovrebbero essere una e oggi sono due, separate l’una dall’altra.
Intanto, il Presidente Mattarella dopo aver ricordato che non è tempo di polemiche e distinzioni, e la forza morale che unisce il Paese, depone una corona nel cimitero di Codogno.
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