Più l’amore è tragico più è vero? Essendo il sentimento d’amore una caduta, l’inciampo verso un desiderio che ha come oggetto una persona ben precisa, un uomo o una donna che non siamo noi a scegliere, ma che esercitano su di noi un richiamo a cui non potersi sottrarre; essendo l’amore mai una scelta, dato che indirizzarsi verso qualcuno per ciò che dà, e non per quello che è, non si può definire amore; sentendoci, se innamorati, come presi da un rapimento estatico che impedisce alla ragione di decifrare la strada giusta, portandoci a volte a sbattere contro gli spigoli di quella sbagliata, possiamo dedurne che più è intenso il nostro sentire, più drastiche saranno le conseguenze.

L’amore finisce, delude. Quando non illumina, l’amore soffoca. Non si può scrivere l’amore. E tuttavia ci si può affidare, pur di orientarsi in mezzo al guado, alle visioni che dell’amore hanno i grandi scrittori. Prendiamone due, sul tema, estremamente distanti: Jane Austen e Lev Tolstoj. Anna Karenina incontra Vronskij, se ne innamora ed è subito tragedia allo stato puro. In ‘Orgoglio e pregiudizio’, Lizzie Bennet vede in una sala da ballo il suo futuro principe, lo osserva e subito lo detesta.

Il paradosso, nel romanzo di Tolstoj, che fa mostra della solita ironia ma anche d’un pizzico di cinismo, è che nella prima parte della storia Anna interpreta il ruolo opposto: quello di chi dispensa consigli. Sua cognata Dolly la chiama in causa perché ha problemi con il marito, spera che Anna la aiuti a salvare le nozze con suo fratello e, piena di dolore, le confida di aver scoperto i suoi tradimenti. Basta un niente perché Anna arrivi a conoscere, anche lei, la passione di un amore al di fuori del matrimonio, segreto, indecoroso. Il sentimento che nutre per un uomo così diverso da suo marito è una forza irriducibile, e il prezzo da pagare per un tale impeto è il più alto di tutti: l’impossibilità di vivere.

Non sappiamo invece se, dopo essersi giurati amore eterno, Lizzie e Mr. Darcy avranno giorni sereni, di tutti i romanzi che Austen ci ha consegnato la soglia oltre il “vissero felici e contenti” è per il lettore un muro invalicabile. Ci si ferma alle nozze, perché il punto non è mai l’amore, ma ciò che lo precede: l’innamorarsi. Non che questa prima fase salvi dallo struggimento, ma a differenza dell’amore, offre quantomeno la possibilità di ricredersi. Smentire sé stessi. È la capacità d’aggirarsi nel mondo con degli adeguati strumenti di comprensione, a interessare Austen.

L’amore diventa il compimento di una parabola di crescita in cui l’eroina comincia col pensare di capire tutto di tutti, poi puntualmente sbaglia, si dispera, prova vergogna di sé, impara a ridimensionarsi e solo adesso diventa pronta per un sentimento. A differenza della passione rovinosa che travolge Anna fino al gesto di gettarsi sotto un treno, Austen sembra preferire la misura. Sottolineiamo: sembra, perché nella sua opera la scrittrice inglese è maestra di ambiguità.

Le domande su cui tutti i suoi critici si sono arrovellati potrebbero ridursi in fondo a una soltanto: lei da che parte sta? Dalla parte della ragione o del sentimento? Nessuna delle due: Austen resta sospesa, è indecifrabile, e oscilla come certi amori. Seppure Anna Karenina e Lizzie Bennet siano personaggi di fantasia, quanto portano alla luce d’un terreno ombroso come l’amore, si applica anche alla vita reale. Ingrediente irrinunciabile di un sentimento, che sia esso tragico oppure no, corrisposto o meno, è l’attesa.
Non ci si sottrae alla mancanza: corredo genetico dell’innamorato. Se non è detto allora che l’amore è più vero quando è tragico, di certo questo “tumulto d’angoscia”, come in ‘Frammenti di un discorso amoroso’ viene definita l’attesa da Roland Barthes, contiene di per sé una dose non trascurabile di tragedia. Essendo impossibile da sterilizzare, non si potrà evitare, almeno del tutto, il dramma. Starà a ognuno di noi, a seconda della fase di vita che si attraversa, scegliere se forzare la mano più dalle parti della ragione o del sentimento. Austen e Tolstoj docet.