Il razzismo inconsapevole, quello che funziona come un tic, è il più pericoloso proprio perché è inconsulto e perché ad abbandonarvisi è anche la brava gente, o che si considera tale. Prendi un video-editoriale del Corriere della Sera in cui l’autore (Antonio Ferrari, firma prominente di quel prestigioso quotidiano), a un certo punto dice: «È un ebreo, ma…». Chi fosse l’ebreo in questione, e che cosa venisse, nel discorso di Ferrari, dopo quel “ma”, importa molto poco e anzi non importa proprio nulla. Se dico che uno è «un nero, “ma”…», è «uno zingaro, “ma”…», o roba simile, chiunque dovrebbe capire che sto avventurandomi dove sarebbe inopportuno, e che quel modo di parlare denuncia un modo di pensare agganciato a pregiudizi stereotipati.

Non è la prima volta che scrivo di queste pericolose inconsapevolezze (spero che siano inconsapevolezze) razziste, e ricordo il caso di un bel titolone sul controllore che fa la ramanzina agli “africani” senza biglietto, o il pensoso editoriale sulla reprensibilità morale delle “nomadi” dedite alla rapina e che, per evitare il carcere, si fanno ingravidare più e più volte. Tutte cose vere: erano immigrati quelli beccati senza biglietto ed erano zingare quelle ladre, ma fino a prova contraria il problema sta nel viaggiare a scrocco, non nel fatto che chi lo fa è nero, così come la notizia dovrebbe stare nella rapina, non nel fatto che a compierla è una zingara che per soprammercato non esita a farsi mettere incinta giusto per farla franca. E quindi quei titoli e quei commenti a che cosa servono? Lascio volentieri la risposta al lettore.
Torniamo a «è un ebreo, “ma”…»? Torniamoci. Esiste una fisiologia, una filosofia, un arredamento domestico, un modo di vestire o di mettersi le dita nel naso o di andare in bicicletta, insomma qualcosa che qualifica “un ebreo”?

Ecco, quel “ma” è lo stesso, esattamente lo stesso, che troviamo incastonato, per esempio, qui: «è un ebreo, “ma” non è avaro», o qui: «è un ebreo, “ma” non è ricco», e simili. Se qualcuno mi facesse notare l’errore, chiamiamolo così, lo riconoscerei e chiederei scusa. Ma scommettiamo? Qui il riconoscimento non arriverà, e figurarsi le scuse. E questa riluttanza è determinata proprio dal carattere inconsapevole e meccanico di certo atteggiamento razzista, che non sente bisogno di emendarsi perché è talmente connaturato da non riconoscersi: non conosciamo le fattezze delle nostre viscere. Non è tuttavia una buona ragione per smettere di denunciarlo, anzi bisogna farlo in modo tanto più occhiuto quando si manifesta nella forma meno appariscente e nei tratti apparentemente neutri di quella parolina, quel “ma” che rischia di dire tutto proprio perché non lo sente nessuno.