Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito su Twitter: giusto che il social network sia a pagamento? Favorevole l’economista Riccardo Puglisi secondo cui “i social avranno bisogno dei proventi degli utenti per rimanere in attivo”. Contrario invece Antonio Pescapè, Professore Ingegneria Informatica Federico II, che sottolinea come il “pay per use’ non vuol dire di qualità così si introduce una discriminazione“.

Qui il commento di Riccardo Puglisi: 

Di fronte a ricavi pubblicitari che sono lontani da quelli che la TV generalista è (era?) in grado di ottenere, e da quelli che per decenni ha ottenuto un motore di ricerca rivoluzionario come Google, ritengo che i social network imboccheranno la strada che consiste nell’affiancare a tali inserzioni pubblicitarie i ricavi che provengono dagli utenti, tipicamente tramite abbonamenti mensili o annuali. È questa la direzione che ha preso con decisione -ma anche con visibili errori e ripensamenti- l’imprenditore Elon Musk dopo avere acquistato Twitter.

A oggi è molto probabile che il prezzo da lui pagato per acquistare l’intera società sia eccessivo rispetto alle prospettive economiche e finanziarie che in media gli analisti vanno formulando. Tuttavia, sono convinto che la direzione di far pagare gli utenti sia giusta se non necessaria, in quanto è per l’appunto poco probabile che gli introiti pubblicitari siano sufficienti per coprire i costi della piattaforma (e la remunerazione degli investitori). Intendiamoci: non si tratta del primo caso di social network che punterebbe con forza su questo modello duplice dei ricavi: LinkedIn, tipicamente utilizzato per fini professionali, praticamente da subito ha puntato con forza sugli abbonamenti da parte degli utenti che volessero beneficiare di servizi aggiuntivi, come ad esempio la possibilità di conoscere il nome di tutti gli utenti che visitano il loro profilo, oppure quella di pubblicare l’annuncio di nuovi posti di lavoro.

Al momento Musk ha creato e potenziato gli account a pagamento chiamati “Twitter Blue” che consentono di apporre la “spunta blu” di utente verificato, di scrivere tweet lunghi 10mila caratteri, e di modificare entro un’ora i propri tweet. Tutte queste possibilità sono precluse agli utenti standard, i quali ovviamente possono tranquillamente sopravvivere con un account gratuito se la loro disponibilità a pagare è inferiore agli 11 euro dell’abbonamento mensile a Twitter Blue.

In maniera simile alla tipica curva “ad esse” che rappresenta la diffusione di una nuova tecnologia, è verosimile che tra i primi utenti che pionieristicamente hanno deciso di acquistare l’abbonamento a Twitter Blue vi sia chi ama queste comodità aggiuntive e/o vuole per l’appunto essere all’avanguardia nel “farsi vedere” su Twitter, come influencer o aspirante tale. Gli analisti si lamentano -e in taluni casi godono- per il fatto che l’andamento dei nuovi abbonamenti a Twitter Blue stia andando a rilento, e che ciò dunque giustifichi la sentenza secondo cui Musk avrebbe fatto un pessimo affare.

Tuttavia, escludendo il caso pur sempre possibile di un numero di abbonamenti sempiternamente stagnante, è abbastanza tipico che l’imitazione e la diffusione di una scelta pionieristica come quella di abbonarsi a Twitter Blue siano fenomeni che iniziano con lenta gradualità, per accelerare in una fase successiva, che ancora non si è realizzata.

I punti importanti che voglio sottolineare a questo proposito sono due: in primo luogo, i social network sono piuttosto segmentati per area geografica, per stile dei post pubblicati e per caratteristiche demografiche degli utenti per cui ritengo largamente improbabile che si riproponga il caso di un social network onnicomprensivo come il Facebook degli anni d’oro, in cui poteva beneficiare di una concorrenza relativamente scarsa. Non solo: perlomeno nei paesi a democrazia rappresentativa l’autorità Antitrust alzerà il capo per combattere abusi di posizione monopolistica, così da rendere ancora più improbabile il ritorno a un social network dominante come il Facebook dei tempi d’oro.

Questi social network molto grandi ma non immensi avranno bisogno dei ricavi provenienti dagli utenti per rimanere in attivo. E non necessariamente gli utenti vorranno saltellare in eccesso verso un nuovo social network che per i primi anni può permettersi di rimanere in perdita, per poi uscire definitivamente dal mercato. E la scarsa voglia degli investitori di finanziare questi “nuovi social” destinati a non guadagnare mai potrebbe fermarli ancora prima di nascere.