Giustizia
È incandidabile, anzi no: il caso assurdo di Franco Metta ex sindaco di Cerignola
Il caso dell’avvocato Franco Metta, ex sindaco di Cerignola, comune sciolto per infiltrazioni mafiose, può essere d’esempio per riflettere su una disposizione di legge molto contraddittoria, alla quale forse politica e magistratura dovrebbero iniziare a guardare con atteggiamento più dubitativo.
Stando alle notizie circolate, Metta è stato dichiarato incandidabile dalla Corte d’appello di Bari ai sensi dell’articolo 143 comma 11 del Testo Unico sugli Enti Locali. Disposizione nella quale si prevede che, se il consiglio comunale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose, gli amministratori locali «responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento» non possono ricandidarsi, per i due turni successivi, alle elezioni per il Parlamento nazionale, a quelle per il Parlamento europeo e alle elezioni amministrative in tutto il territorio nazionale (non solo per i singoli enti interessati dallo scioglimento). Per farli dichiarare incandidabili, il Ministro dell’interno ha l’onere di provocare un apposito processo, trasmettendo al tribunale civile del luogo la stessa proposta di scioglimento inoltrata al Consiglio dei Ministri.
L’avvocato Metta, comunque, alle prossime elezioni ci sarà: si vota in autunno e l’ex sindaco ha tutto il tempo di impugnare in Cassazione la pronuncia della Corte d’appello. L’incandidabilità, per l’articolo 143, ha effetto soltanto dopo che è stata dichiarata dal giudice «con provvedimento definitivo». Ciò significa che, visti i tempi processuali, la decisione della Cassazione non arriverà prima delle nuove elezioni e, se confermerà la decisione della Corte d’appello, con Metta di nuovo Sindaco, si porrà un problema di decadenza anticipata dal mandato (questione delicata, perché la legge non è chiara neppure su questo).
Nel merito, la tesi accusatoria del Ministro, condivisa dalla Corte d’appello, è che Metta, quando era in carica, abbia generato, nella pubblica opinione locale, l’impressione di mantenere uno stile di vita inopportuno, perché apparentemente contiguo o non sufficientemente impermeabile alla criminalità organizzata. Ora non interessa se il fatto sia vero e correttamente riportato. Non importa neppure interrogarsi su Metta, sul suo livello di etica e di capacità politica e amministrativa. Il problema, qui, è la legge.
Dal 2012, l’art. 143 comma 11 TUEL “convive” con la legge Severino, che nega il diritto di candidarsi alle elezioni soltanto all’amministratore locale condannato con sentenza, per reati specifici (tra cui l’associazione mafiosa), o che abbia subito l’applicazione di una misura di sicurezza. Dunque Metta, per la legge Severino, è perfettamente candidabile. Non è mai stato rinviato a giudizio per uno dei reati ostativi alla carica di sindaco. Eppure rischia di essere dichiarato incandidabile, in forza dell’art. 143 comma 11 TUEL, per aver “provocato” il sospetto del Ministro.
Finora la Cassazione ha rifiutato di mettere sotto i riflettori questa macroscopica contraddizione, convinta che l’incandidabilità prevista dall’art. 143 comma 11 TUEL sia una misura di “prevenzione”. Ma molte sono le domande che la situazione normativa attuale solleva. Non è forse preventiva anche l’incandidabilità “per mafia” contemplata dalla legge Severino, che pure dispone esattamente il contrario? E che grado di coerenza c’è in un ordinamento che qualifica un amministratore locale, al tempo stesso, “candidabile”, per non aver mai riportato sentenze di condanna, e “incandidabile” perché il Ministro dell’Interno sospetta che la sua carica agevoli le infiltrazioni mafiose? Non si avverte, questa grave contraddizione, nel vedere la Cassazione decidere che un sindaco, ai sensi dell’art. 143 comma 11 TUEL, resta incandidabile persino se il giudice penale lo ha prosciolto dall’imputazione di concorso in associazione mafiosa?
Il caso dell’avvocato Metta non è il primo, e non sarà l’ultimo. C’è solo da augurarsi che lui o altri nella sua stessa situazione facciano valere, magari riportandole in Cassazione, le ragioni dell’incostituzionalità dell’art. 143 comma 11 del TUEL, forse anche del suo contrasto con la CEDU. Meglio ancora sarebbe, se il Parlamento abrogasse l’art. 143 comma 11 del TUEL. Non sarebbe, certo, la grande riforma che molti auspicano, ma, a volte, la cosa migliore è tornare a un buon punto di partenza.
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