Ancora pochi mesi e avrebbe toccato il secolo. Invece Gianadelio Maletti è spirato a 99 anni il 9 giugno scorso anche se, coerentemente con quella che era stata la sua vita, la notizia è rimasta segreta sino a due giorni fa. Era una delle spie più chiacchierate e sospettate d’Italia. E’ morto senza realizzare il sogno, che probabilmente alla fine aveva capito essere solo una chimera, di tornare da uomo libero in Italia dopo aver passato in Sudafrica oltre 4 decenni, dalla fuga nel 1980 per evitare la galera sino al giugno scorso.

In Italia c’era tornato una volta sola, con tutte le garanzie del caso, nel 2001, per testimoniare ai processi per le stragi del 12 dicembre 1969 a Milano e del 1974 a Brescia. Disse poco e niente che lo potesse coinvolgere, nonostante la condanna per aver fatto fuggire Guido Giannettini, informatore del Sid (sigla dei servizi segreti dell’epoca) condannato e poi assolto in appello per la strage, e il testimone Marco Pozzan. Affermò solo di “aver saputo de relato” che l’esplosivo usato a Milano era arrivato dalla Germania, destinato ai gruppi di estrema destra italiana.

Con Maletti sono stati sepolti certamente molti segreti. Non potrebbe essere diversamente con il lavoro che faceva e data l’epoca in cui lo faceva, gli anni delle stragi, dei conati di golpe, dei depistaggi in scala industriale. Segreti però non significa misteri, cioè altarini tali da modificare, se scoperchiati, la storia italiana recente. Forse avrebbe spiegato più a fondo quella storia, l’ex capo del “reparto D” addetto al controspionaggio e numero 2 del Sid, se avesse raccontato nei dettagli la sua “storia ufficiale” o semiufficiale: la carriera, i rapporti col potere politico, la guerra per bande tra spezzoni dei servizi segreti che facevano riferimento a diverse e spesso segretamente conflittuali potenze alleate.

Non che Maletti non ne abbia mai parlato. Rispondeva via mail a tutti i giornalisti che lo cercavano e lo interrogavano. Mai però addentrandosi davvero negli angoli più ombrosi di quelle vicende. Mai restituendo, come avrebbe potuto fare, uno spaccato reale, non fantasioso e farcito di trame immaginifiche, di cosa è stato il potere reale nell’Italia della Prima Repubblica. Stava anche scrivendo la propria autobiografia ma chi l’ha letta, come il giornalista e storico Paolo Morando, sostiene che sia essenzialmente un testo nostalgico sugli anni della giovinezza e della prima carriera militare. A quella carriera Maletti era in un certo senso destinato dalla nascita. Torinese, figlio di un generale con una sfilza di nastrini e medaglie sul petto, Pietro Maletti, caduto in Libia nel 1940. Era stato compagno di scuola di un altro dei protagonisti degli anni ‘60 e ‘70 italiani, Eugenio Cefis, anche lui sospettato di essere stato a suo tempo una spia. I due amichetti si erano persi di vista e ritrovati poi già adulti e ben avviati sulla via del potere.

Maletti però considerava l’ “uomo nero” dell’Eni un tipo troppo emotivo per il mestiere della spia. A lui quella critica nessuno avrebbe mai potuto muoverla. Era freddo, sempre controllato, asciutto. La celebre risposta data a chi notava la sua memoria prodigiosa, “Sì è vero. Ma solo quando mi fa comodo”, è più di una semplice battuta. Quasi una carta d’identità. Militare di carriera, nel 1967 fu spedito nella Grecia dei colonnelli golpisti. Fece amicizia con gli uomini di quel regime e non solo con loro. Aveva conoscenze internazionali, spaziava oltre il cortile dell’Italietta. Si immaginava e voleva essere un modernizzatore dell’angusto mondo dei servizi italiani, con modelli di riferimento ben precisi: i tedeschi e soprattutto gli israeliani. Il ruolo di addetto militare che aveva ricoperto ad Atene già sconfinava nell’universo delle spie. Nel 1971 diventò un dirigente dei servizi segreti a tutti gli effetti. Galloni da colonnello, incarico come numero due del Sid.

La guerra tra il direttore del Sid Vito Miceli e il suo ambizioso e insofferente numero 2 fu durissima, segnò tutti gli anni 70. I due non avrebbero potuto essere più diversi. Irruento e facilone il primo, gelido e tecnocratico il secondo. Miceli giocava nella squadra che insisteva per una politica filoaraba. Maletti in quella legata agli israeliani e alla fazione più amica di Israele della Cia. Erano legati a settori diversi e in conflitto permanente tra loro della Dc. Non c’era dirigente dei servizi che non avesse la sua targa e rinviavano tutte a qualche capo della Dc. Il generale De Lorenzo era stato l’uomo di Segni, Henke era il protetto del potente Taviani, Miceli l’uomo della destra dorotea. Ma ciascuno faceva poi i propri giochi e sapeva se del caso cambiare casacca. Miceli si spostò verso Moro soprattutto in cerca di uno scudo contro le inchieste sul suo conto. Maletti, già vicinissimo al socialista Mancini, si trasformò in andreottiano di ferro nel 1974.

Il primo conflitto tra i due (Miceli e Maletti) fu sulla nomina alla guida del Nucleo Operativo Diretto del Sid, di un uomo di Maletti, il capitano Labruna, convolto poi in tutte le inchieste a carico del suo capo. Non smisero più di duellare: una sfida tra le macerie perché su entrambi pesavano inchieste legate alle stragi e alle trame golpiste. Maletti fu arrestato e inquisito nel 1976 per aver fatto fuggire Giannettini e Pozzan. Fu accusato di aver depurato di alcuni nomi pesanti, tra cui quello di Licio Gelli, i documenti che consegnò ad Andreotti sul golpe Borghese del 1970. Fu anche condannato e poi assolto in appello e Cassazione per favoreggiamento nei confronti di Gianfranco Bertoli, autore della strage alla Questura di Milano del 1973. La condanna più pesante, però, gli arrivò in uno dei processi più complessi e confusi della storia, con dentro un po’ di tutto, dal petrolio alla finanza allo spionaggio, l’affare Mi.Fo.Biali: condanna definitiva a 9 anni.

Di rivelazioni importanti Maletti, in quarant’anni di esilio, ne ha fatta una sola: sulla morte di Pino Pinelli. Però anche quella de relato, e chissà se vera. L’anarchico milanese sarebbe stato costretto a sedersi sul cornicione della finestra, giusto per indurlo a collaborare con la minaccia di un salto nel vuoto. A ogni risposta lo spingevano un po’ più in là. Involontariamente una delle spintarelle si rivelò fatale. Di quella fase sanguinosa il colonnello degradato a soldato semplice Maletti avrebbe potuto certamente dire molte altre cose. Quanto importanti non lo sapremo mai.