Il caso
È nipote del boss Nitto Santapaola, il Cosenza lo caccia
Si è scelto il ruolo di mediano, forse quello più duro nel calcio: contrastare ogni pallone, bloccare gli avversari, difendere e far ripartire la squadra. Nessuno spazio per i virtuosismi, i personalismi, si lotta per il gruppo in mezzo al campo. Poi d’improvviso ci si ritrova fuori dal campo, fuori dal gruppo. La squadra non ti vuole più, l’incubo peggiore per un mediano. Pietro Santapaola ha 17 anni, il Cosenza, squadra calabrese che solca i campi della serie B, lo ha preso dal Messina, sua città natale, a gennaio 2021, nemmeno il tempo di pensarsi il sogno e si è ritrovato fuori rosa, con l’impossibilità fino a giugno di passare a un’altra squadra.
No non ha giocato male, non si è comportato male, non è cambiato in due mesi, continua a essere la promessa del calcio che l’ha portato in Calabria; Pietro va d’accordo con i compagni, l’ambiente lo vuole bene. Ha solo un cognome pesante, che sposta la sua genetica a Catania, dove Santapaola lo avvicina a Nitto, nome tristemente famoso che rimanda alla mafia, a una stagione di morte. Pietro ha un legame di parentela con Benedetto Nitto Santapaola, ergastolano per fatti gravissimi e un tempo capo della mafia etnea. Soprattutto Pietro è figlio di Pietro senior, condannato per mafia, anche se non con sentenza definitiva, a Messina. Pietro junior, il mediano arrivato a rinforzare il Cosenza non c’entra nulla col prozio di Catania. Non ha nulla a che spartire con le scelte del padre. Aveva un talento e intorno ci ha costruito il progetto di una vita diversa.
Un sogno che si dice si sia infranto da quando la dirigenza del Cosenza ha capito di chi è parente. Perché sembra che l’unico motivo per cui sia stato messo fuori dalla squadra sia il suo cognome: lo afferma la denuncia presentata in Procura dal legale Salvatore Silvestro, e trasmessa alla Lega, a cui la madre di Pietro si è rivolta per tutelare il figlio, ancora minorenne. La madre è ancora con lui, e con lui sono i tifosi, le frange storiche del supporto cosentino. Una solidarietà che per ora non infrange il silenzio della società. Una vicinanza che per ora non basta a rimettere in moto i piedi di Piero, che voleva solo scarpinare in mezzo al campo. Un attestato che non butta giù il muro di un conformismo che non è muro e mattoni solo calabresi.
Legalismo, moralismo, ipocrisia, sono diventati da tempo il cemento di un’Italia senza cuore, che nuota in superficie ignorando la profondità e la complessità del mare sociale. Una Nazione che annienta i figli per le colpe dei padri. Che nega speranza ai frutti del margine e chiude a se stessa il futuro. Pietro Santapaola ha rifiutato la logica del grilletto, è corso lontano dalla mafia fingendo di rincorrere un pallone. Ha corso a perdifiato per mettere più distanza possibile fra sé e il male, per esorcizzare un mostro che avrebbe potuto divorarlo, che s’è mangiato schiere di bambini meridionali. Avrebbe diritto a una società che ne sorreggesse la corsa. Se davvero il Cosenza lo manda via per il suo cognome, allora bisogna interrogarsi su come questa società voglia costruire contesti diversi, se davvero questa società lo voglia un mondo migliore, o se il futuro non sia altro che un gioco a tirare balle. C’è un ragazzo che vuol fare il mediano, che da solo prova a costruirsi un destino suo, si chiama Pietro Santapaola, vuol fare il mediano.
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