È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino è un film “famigliare” in senso assoluto. Gli occhi di un Figlio raccontano un destino, intimo e tragico lungo le linee spezzate della memoria. Fabio Schisa, il ragazzo-pupilla protagonista, riordina il momento del dolore più grande: i genitori assassinati dal monossido di carbonio durante ciò che doveva essere un inerme soggiorno “nella casa delle vacanze”; la tarda adolescenza infranta.

L’intero racconto mostra tuttavia un meraviglioso “Mercante in fiera”, con i volti di un ceto medio dell’enclave residenziale del Vomero. Dalle terrazze lassù, Napoli racconta la scia dei motoscafi dei contrabbandieri di sigarette, le aree ormai edificate di una chiassosa piccola borghesia paga di sé. Porcellana impiegatizia, Capodimonte grottesca, struggente in bermuda e ciabatte. La litografia di Guttuso, sentinella del gusto nel soggiorno di casa, premio da “Catalogo Bolaffi”, segno d’arredo di un pensiero “civile” nel tepore domestico. La parata fantasmagorica dei dirimpettai: zie dallo sguardo imbevuto nell’infelicità, cognati con lenti bifocali da economato comunale, il calore delle chiacchiere pomeridiane trasposte nella crudeltà di Antonin Artaud, così tra Chiaia e Fuorigrotta. Un presepe in vestaglia napoletano e pettegolo, orgoglioso dei propri voucher per le prossime gite, nell’attesa dell’avvento biancoceleste, di più, celestiale di Maradona.

I primi anni Ottanta accompagnati dalla voce modulata al laringofono di un nuovo osceno cognato ancora. Gastroscopia, colonscopia e transaminasi del paradosso, appunto, familiare partenopeo. Piazza del Plebiscito che vede ora passare la Rolls-Royce di un San Gennaro in smoking, il patrono trasfigurato in creatura da veglione da “Zi Teresa”, “La Bersagliera” o al “Transatlantico”, interpretato da Enzo Decaro, omaggio implicito a ciò che l’immenso Peppino De Filippo chiamava “la carretta dei comici”, evocando così Massimo Troisi. La sontuosità dei seni di zia Patrizia-Luisa Ranieri, capezzoli di luce sotto l’abito bianco accanto al saio del “Munaciello”, preposto a trattenere le povere anime cittadini fuori dal purgatorio della sconfitta. D’improvviso, il film, si appropria addirittura della mia memoria, e anch’io, da semplice spettatore, mi riconosco nella città e nello stesso dolore del racconto. I giorni d’estate del 1984: il servizio militare al comando Nato di Bagnoli, mi fanno ritrovare addirittura il ricordo del caporalmaggiore Di Lorenzo che narrava di una dea transessuale bionda, tra Galleria e piazza Trieste e Trento: la volta in cui proprio il Di Lorenzo si abbandonò a “un lavoro di bocca” della ragazza, basterà uno sguardo supplice, sentirle pronunciare, sollevando gli occhi dal bacino, “Dai, amore mio, vieni…” perché trovasse, improvviso, il punto esatto del piacere assoluto.

Lo stesso film sembra restituirmi l’immagine delle agendine annuali di mia madre insegnante, finite alla rinfusa nelle Fosse di Katyn’ del Cimitero delle Fontanelle, memoria postuma. Sulle righe puntinate della rubrica in fondo all’elenco dei giorni, dovrebbe ancora adesso trovarsi nome e numero – prefisso 081 – di un medico primario, residente proprio al Vomero, conosciuto allora in un camping del Litorale Domizio. Il “dottore” condusse il ragazzo militare a Spaccanapoli per una pizza, e da lì in cima al tetto del mondo del quartiere, mostrandogli l’orizzonte serale di Napoli con gentilezza altrove mai più ritrovata. Lo stesso campeggio dove, asserragliati in un camper, chiassosi come il parentado degli Schisa-Sorrentino, si accalcavano i Miceli, amici di famiglia: le varici matronali di nonna Miceli, alfa e omega d’ogni discorso mortuario da comitiva in viaggio, la madre ricalcata sui tratti della vecchia, il marito a ridere trattenendo l’inguine con il palmo della mano, i figli maschi massicci nel proprio qualunquismo, la sorella più giovane bella come un fermaglio d’oro a forma di spiga. La loro insistenza perché li portassi alla Nato a comprare un televisore “Sanyo”. Gli anni Ottanta, quando gli orologi pulsavano di quel rosso digitale.

Struggente che il giovane doppio di Sorrentino nel film porti un walkman al fianco, come sciabola generazionale.
Su tutto, la morte. Sebbene i miei, diversamente dai genitori di Fabio, abbiano lasciato solo un figlio ormai adulto, il terrore della perdita improvvisa l’ho conosciuto proprio in cima ai Quartieri Spagnoli: avvenne all’ospedale militare quando un piantone disse così “… sai, ti cercano urgentemente al telefono da casa”. Cuore in gola, la Medaglietta miracolosa della Madonna legata con un filo azzurro all’ultima asola del pigiama di falso fustagno, nella corsa mi batteva sui denti, giunsi alla cornetta convinto che mio padre dovesse comunicarmi il “decesso” di mamma. Mai più, neppure il giorno in cui li ho visti nelle bare, dono crudele negato al ragazzo Fabio Schisa-Paolo Sorrentino, ho provato il medesimo senso di precipizio.

Rivedo ancora adesso il Vomero, mentre l’ospite indica le luci del litorale sbriciolate longitudinalmente a fronteggiare un mare quieto, a dispetto del bradisismo di allora. Anch’io, come Paolo Sorrentino a un certo punto ho abbandonato la città di nascita per l’altrove, magari non “per fare il cinema” assodato comunque che “la realtà è scadente”, non sul treno che muove da piazza Garibaldi, non sulla Circumvesuviana, la stessa che si inclinava sul fianco, come nei film messicani con Pancho Villa, sotto alla tomba di Virgilio e di Leopardi, piuttosto a bordo della Ritmo Fiat del solito caporalmaggiore romano Di Lorenzo. Sempre con lui ero stato anche a piazza dei Martiri alla mostra di Robert Mapplethorpe, presente di persona, viso spolpato dal citomegalovirus, il chiodo nero da motociclista a proteggerlo dal freddo di gennaio. Mi addormentavo mentre l’auto filava verso Roma sull’Autostrada del Sole ormai in notturna grazie a una licenza 3+1, risvegliandomi al casello del Raccordo Anulare, anch’io accompagnato, come “Fabietto” nel suo viaggio, da Pino Daniele: “Napule è mille culure, Napule è mille paure…”.

Cosa sarà adesso il bambino incontrato sulla metro alla stazione di Piazza Amedeo insieme alla nonna, reduci dal Santuario di Pompei, lui, sulla strada del ritorno, in nome della gioia infantile, affinché la vita non fosse soltanto nei grani di un rosario, aveva preteso una visita al castello di “Edenlandia”, lì a Fuorigrotta, dove lo Stadio “San Paolo” è diventato “Maradona”. Forse il cinema, la letteratura, il racconto, lo sguardo stesso sulla memoria, come il film di Sorrentino suggerisce, servono a riesumare dal nostro personale Cimitero delle Fontanelle le agendine trascorse di famiglia. In quale cassetto casalingo si troverà, perfino la matitina ancora intatta, grafite inerte, sopravvissuta tuttavia alla fragile carne dei nostri genitori, l’agendina con il cognome esatto del primario gentile, lui che mi mostrò il mistero notturno di Napoli dopo la casualità del nostro incontro al camping di Baia Domizia? Segnato sul rigo con grafia garbata da mamma per le estati che pensavamo ancora a venire.

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Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube. Il suo profilo Twitter @fulvioabbate