L'arrivo del nuovo capo
Ecco come Marcello Viola può salvare la Procura di Milano, ma c’è l’inferno ad aspettarlo

Sottolineare che “L’animale simbolo del lavoro del magistrato non è l’aquila né il leone, ma il mulo”, in un ambiente di primedonne come la Procura della repubblica di Milano, non è proprio limitarsi a fare una battuta. È già una lezione di stile, quella impartita mercoledì mattina da Marcello Viola, che arriva a dirigere gli uffici che videro la gloria degli anni di Tangentopoli e che oggi si presentano stanchi, polverosi e dilaniati da risse interne, sospetti e inchieste che si riversano su Brescia. Il nuovo procuratore arriva “da fuori”, e non capitava dal 1972, quando l’ufficio in fondo al corridoio al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano fu occupato da un altro siciliano, Giuseppe Micale.
La prima accoglienza è formale, come si conviene nelle buone famiglie. Il passaggio di consegne è affidato a un ex dell’ex, Edmondo Bruti Liberati, poiché Francesco Greco è impossibilitato causa covid. È assente anche Laura Pedio, quella che tra gli aggiunti è sempre stata quella a lui più vicina. Ma il vertice di palazzo è al completo: dal gran cerimoniere Roberto Bichi, presidente del tribunale, a Giuseppe Ondei, presidente della corte d’appello, al procuratore generale Francesca Nanni. Ci sono anche i procuratori aggiunti. La forma è salva, dunque. Ma è ancora viva quella traccia lasciata da Francesco Greco, che paventò per il futuro la presenza di qualcuno non in continuità con la storia, che procedesse alla “normalizzazione della procura di Milano, riducendola a occuparsi di inchieste da cronaca locale”.
Il messaggio del “mulo” è molto chiaro, e chi vorrà intendere sarà costretto a farlo. Ora basta con i protagonismi, i voli pindarici dell’aquila e i ruggiti del leone. Da oggi qui ci sarà la normalità, quella normalità di cui a Milano c’è tanto bisogno. Un po’ perché proprio da qui è nata quella “Repubblica giudiziaria” che ora andrebbe accompagnata per mano fino alla sua sparizione, per poter rimettere l’amministrazione della giustizia nell’ambito delle regole del giusto processo. E anche perché una certa disinvoltura procedurale, soprattutto nelle inchieste che riguardano il mondo della politica, finisce troppo spesso per far spendere tempo e denaro ai cittadini per processi che non avrebbero neppure dovuto cominciare. Qualche recente “flop”, come le indagini sull’inesistente evasione fiscale del Presidente regionale Attilio Fontana piuttosto che le recenti assoluzioni in appello del ministro Massimo Garavaglia e dell’ex sottosegretario Mario Mantovani ancora bruciano sulla pelle della Procura più famosa d’Italia. Aquile e leoni con le unghie tagliate. Per non parlare delle eterne e inconcludenti inchieste su Ruby uno e due e tre nei confronti di Silvio Berlusconi, che finiscono (e finiranno) come sappiamo.
Questo è il passato, e può essere affidato alla storia. Ma è già confortante, anche per la rilettura di quel che è stato e dei metodi adottati, il fatto che il “mulo” Viola ponga in primo piano come suoi principi irrinunciabili (“È a questi valori che cercherò di ispirare la mia attività”), “Indipendenza, professionalità, responsabilità”. Una ventata di aria pura. Che andrà, ovviamente, verificata giorno per giorno. Ma il fatto stesso che l’indipendenza sia affiancata da una promessa di alta qualità del lavoro (professionalità) e dall’impegno a rispondere (responsabilità) di quel che si è fatto, è un salto di qualità rispetto al lasciarsi cullare nel ricordo passivo di quel che fu e che più non è. Così come l’attenzione –che è bene dichiarare ma soprattutto praticare- ai diritti dell’imputato e delle vittime. Ma c’è l’inferno ad aspettarla, procuratore Viola. Non sono quisquilie, come potrebbero parere i problemi di riorganizzazione dell’ufficio, piuttosto che le numerose inchieste aperte a Brescia nei confronti di alcuni sostituti milanesi o di ex come Davigo, e persino del suo predecessore Francesco Greco.
Occorre un po’ di memoria storica, per capire a fondo che, nel piccolo mondo di quel quarto piano in cui un semplice pm che si chiamava Tonino Di Pietro divenne famoso nel mondo e contribuì a cambiare la storia della repubblica italiana, annientando i partiti che avevano governato per cinquant’anni, nessuno si sente semplice fante, e men che meno “mulo”. Qui a Milano, dottor Viola, il termine “sostituto” rischia di non voler dire niente. Ognuno in quel corridoio che Lei presiederà si sente protagonista, ognuno è Procuratore. Chieda al suo ex collega Greco che cosa successe nel 2019 quando lui cercò di rimettere un po’ di ordine e rispetto delle gerarchie, in modo che ogni sostituto avesse il proprio punto di riferimento in un procuratore aggiunto e capo di dipartimento. Cose normali altrove. Non a Milano. Qui fu rivolta. Fino a tempi più recenti, in cui quelle che paiono all’apparenza questioni tabellari e organizzative del lavoro, si sono intrecciate con alcuni processi come quello nei confronti dei dirigenti di Eni, o con inchieste come quelle avviate dalla Procura di Brescia.
Qui siamo nel mondo in cui il sostituto Paolo Storari si rivolse (secondo lui ne fu costretto) al consigliere del Csm Piercamillo Davigo perché la responsabile del suo dipartimento Laura Pedio e lo stesso procuratore Greco sottovalutavano le dichiarazioni del legale esterno di Eni su una loggia massonica di nome Ungheria. È anche il mondo in cui poi un centinaio di magistrati milanesi è corso in sostegno del giovane sostituto e contro il procuratore capo fin sulla soglia del Csm e delle sue commissioni, la disciplinare e quella sui trasferimenti. Ma è anche il luogo in cui, tra sussurri e maldicenze, si sospettò l’insabbiamento di quella deposizione per mantenere intatta la genuinità di quel teste d’accusa nei confronti dei vertici Eni. Che dovevano a ogni costo esser condannati (ma poi furono assolti), al punto che, di fronte a una palese polpetta avvelenata nei confronti di chi presiedeva il tribunale che doveva giudicare gli imputati, la procura di Milano scelse di mandare la polpetta a Brescia. Un palese tentativo di arrivare alla sospensione dal processo di quel presidente. E poi parlano di “cultura della giurisdizione” del pubblico ministero!
E poi il pm Fabio De Pasquale, che aveva svolto il ruolo dell’accusa in quel processo finito per lui disastrosamente non solo per le assoluzioni degli imputati, si intestardì e presentò appello, proponendosi ancora nel suo ruolo, cosa che non gli fu concessa dalla Procura generale. E ancora scontri e polemiche, mentre lui stesso veniva indagato a Brescia perché non aveva presentato le prove a discarico. E sarà infine preso di mira, ma solo dopo le sue sconfitte, da aquile e leoni di procura perché il dipartimento da lui diretto (reati internazionali) era stato, ai tempi di Francesco Greco, trattato da privilegiato ed esentato dall’ordinaria amministrazione. Cosa vera.
E poi ancora, se vogliamo continuare nell’elenco dei problemi più spinosi all’ordine del giorno sulla scrivania del procuratore Viola, occorre ricordare la spiacevolissima vicenda del filone lombardo delle inchieste sul Monte dei Paschi. Con un’altra, ennesima luce negativa sulla Procura, di nuovo sospettata di insabbiamento e lo stesso Greco indagato a Brescia e una falsa perizia che vede come vittima un sostituto procuratore generale di Milano e una polemica rovente tra gli uffici requirenti di primo e secondo grado. Litigiosi e stanchi, appaiono oggi i magistrati a Milano. E una bella corona di spine è già pronta sul nuovo procuratore Marcello Viola. Ma se è vero che il mulo è un animale simbolo soprattutto di grande coraggio, oltre che di capacità a resistere anche alle temperature più calde, come quelle della Calabria e della Sicilia, forse a Milano è arrivato l’uomo giusto. O almeno speriamo.
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