Chi non avesse dimestichezza con la storia del Jobs Act italiano e ricorresse a Wikipedia per saperne qualcosa, almeno a grandi linee, leggerebbe – tra l’altro – che: il provvedimento fu introdotto dal governo Renzi per ridurre la disoccupazione stimolando le imprese ad assumere; fu giudicato molto positivamente dalle istituzioni economiche internazionali come il FMI, la Banca Mondiale, la Banca Centrale Europea e l’OCSE; in Italia fu aspramente criticato da più parti, tra cui, oltre ai partiti di opposizione e diversi esponenti dello stesso PD, alcuni sindacati come CGIL e UIL. Per Wikipedia, una valutazione complessiva e definitiva sull’efficacia dei vari provvedimenti connessi al Jobs Act è “estremamente problematica”, anche se viene ricordato che secondo alcuni studi “il nuovo contratto a tutele crescenti introdotto dalla riforma ha effettivamente prodotto un aumento dell’occupazione, distinto da quello dovuto agli incentivi alle imprese”.

Tra le più forti critiche all’epoca mosse al Jobs Act, tuttora sedimentate nelle pieghe dell’immaginario collettivo e perduranti in alcuni commenti di stampa e nella visione di alcuni partiti, tra cui il M5S e il PD di Elly Schlein, vi è stata quella secondo cui – rispetto al regime precedente – con le nuove misure varate dal governo Renzi il lavoro in Italia sarebbe divenuto più precario e, una volta finite le decontribuzioni temporanee per le assunzioni permanenti delle imprese, vi sarebbe stato un calo dei posti di lavoro a tempo indeterminato.

La realtà è che niente di tutto ciò è avvenuto, non si è verificata nessuna ondata di licenziamenti selvaggi e se guardiamo ai dati possiamo invece constatare che il mercato del lavoro italiano ha fatto enormi progressi dal 2014 in poi. Lasciamo dunque parlare i dati ed analizziamo qui di seguito alcune semplici cifre, prese dall’Appendice statistica dell’ultimo comunicato stampa dell’Istat sulle rilevazioni delle forze di lavoro diramato lo scorso 1° agosto.

Innanzitutto, rispetto a febbraio 2014 (quando entrò in carica il governo Renzi), a tutto giugno 2023 si registrano 1 milione e 782 mila occupati in più, nonostante che in mezzo ci sia stata anche la pandemia. Di questi posti di lavoro in più, 1 milione e 256 mila sono stati creati durante i governi Renzi e Gentiloni, tra marzo 2014 e maggio 2018. Poi, durante i governi Conte 1 e 2  no al dicembre 2019, cioè prima dello scoppio del Covid-19, vale a dire non considerando il crollo dei posti di lavoro causato dalla pandemia, il numero degli occupati non è sostanzialmente più cresciuto.

Infine, durante i governi Draghi e Meloni non solo sono stati recuperati tutti i posti di lavoro persi durante la pandemia ma ne sono stati creati altri 542 mila in più rispetto al dicembre 2019. In totale, dal marzo 2014 al giugno 2023 gli occupati in Italia sono passati da 21 milioni e 808 mila a 23 milioni e 590 mila.

In poco più di 9 anni il tasso di occupazione in Italia è cresciuto di 6,5 punti percentuali, raggiungendo il record storico del 65,1%. Gli inattivi sono calati di 1 milione e 822 mila unità e il numero di disoccupati è sceso di 1 milione e 371 mila. Il tasso di disoccupazione italiano, che nel febbraio 2014 era del 13%, è diminuito di 5,6 punti percentuali ed ha toccato a giugno 2023 il 7,4%, cioè un valore più basso di quello di un Paese nordico come la Svezia (7,6%) e di 4,3 punti percentuali inferiore a quello di un Paese mediterraneo come la Spagna (11,7%).

Il tasso di disoccupazione giovanile (15- 24 anni), che nel febbraio 2014 era in Italia del 43,1%, si è più che dimezzato nello stesso periodo scendendo al 21,3%, cioè un valore, per un confronto, anche in questo caso inferiore a quello della Svezia (24,9%) e di ben 6,1 punti percentuali più basso di quello della Spagna (27,4%).

Quanto ai posti di lavoro a tempo indeterminato, che secondo i critici sarebbero dovuti crollare con la riforma del Jobs Act, tra marzo 2014 e giugno 2023 sono cresciuti di ben 1 milione e 333 mila unità: 551 mila in più con i governi Renzi e Gentiloni; solo +73 mila con i governi Conte 1 e 2  no a prima dello scoppio della pandemia; e altri 709 mila in più rispetto ai livelli pre-pandemici con i governi Draghi e Meloni.

L’avvento del Jobs Act non ha dunque determinato un ambiente ostile ai posti di lavoro stabili. Tra marzo 2014 e giugno 2023 il numero di dipendenti a tempo indeterminato creati in più è stato di 1,7 volte superiore al numero di dipendenti a termine creati in più. Nello stesso periodo, poi, si è anche più che dimezzata la cronica emorragia dei posti di lavoro indipendenti (artigiani, negozianti, professionisti, ecc.) rispetto al decennio precedente.

In conclusione, i dati attuali del mercato del lavoro italiano sono di gran lunga migliori di quelli di un Paese nordico come la Svezia, pur incorporando il nostro Paese un’area problematica come quella del Mezzogiorno, dove è stato fatto nel recente passato anche un ampio ricorso al reddito di cittadinanza ma senza un e cace accompagnamento al lavoro. Se consideriamo i dati del primo trimestre 2023, gli ultimi disponibili a livello territoriale disaggregato, possiamo constatare che il tasso di disoccupazione medio dell’Italia, allora pari all’8%, già si stava avvicinando a quello medio svedese del primo trimestre 2023 (7,3%), ma era composto da tassi di disoccupazione molto più bassi, pari al 4,6% al Nord e al 6,4% al Centro, contrapposti al 14,9% del Mezzogiorno. Tuttavia durante gli anni post Jobs Act tutti i tassi di disoccupazione macroregionali sono tutti diminuiti sensibilmente, incluso quello del Mezzogiorno. Rispetto al primo trimestre 2014 il tasso di disoccupazione del Nord è diminuito di 4,3 punti percentuali; quello del Centro di 5,2 punti percentuali; e quello del Mezzogiorno di 5,9 punti percentuali.

Marco Fortis

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