«Un anno e mezzo per avere una distribuzione. La mia compagna Marina Marzotto, produttrice del film insieme a me, era andata a farlo vedere in Rai. Non avrei voluto, sapevo che sarebbe stato inutile. Infatti. Un mare di complimenti, elogi alla recitazione di Massimo Ranieri, di Libero De Rienzo, ma poi: “Pensate di farlo uscire al cinema? No, non può, nel modo più assoluto”». Così alla fine, senza aver avuto i fondi ministeriali e dopo ostacoli di ogni genere, il film di David Grieco Macchinazione, terminato nell’agosto del 2014, riesce ad arrivare nelle sale solo a Pasqua del 2016 grazie a una piccola distribuzione.
Pochi l’hanno visto anche se continua a circolare per l’Italia, ogni volta accolto come un piccolo evento, fonte di enorme curiosità, sconcerto, dibattiti. Perché Grieco, che ha conosciuto e frequentato Pasolini per più di quindici anni, in Macchinazione e nel libro omonimo scritto parallelamente alla lavorazione del film propone sull’uccisione del poeta un tesi molto diversa da quella ufficiale.
Se Pasolini non è stato ammazzato da Pino Pelosi, allora da chi? E soprattutto, perché?
È stato ammazzato perché rompeva i coglioni. Dillo con queste parole qui. Quello che andava scrivendo da un po’ sul Corriere della Sera, quello che scriveva sulle stragi, il suo “Io so tutto ma non ho le prove” – che è un manifesto del giornalismo, e lui negli ultimi anni si sentiva più che mai un giornalista – , il processo alla Dc, il suo ultimo romanzo Petrolio; ecco, tutto questo è “il perché”. Tutti sapevano che stava scrivendo Petrolio e che al centro del libro c’era Cefis. Anni dopo si è scoperto che molti appartenevano alla P2, che anche i vertici Rai appartenevano alla P2 (associazione su cui non si è mai riuscito a far luce, non dimentichiamolo). Pier Paolo andò all’idroscalo a lasciarci la pelle con la piena consapevolezza di rischiare. Probabilmente pensava “Mi conoscono tutti, sono Pasolini, faccio saltare il coperchio dalla pentola”. Invece non c’è riuscito perché le connivenze erano tante e tali. Pelosi ritrattò uscito dal carcere, poi cambiò ancora versione, e alla fine si è portato nella tomba ciò che sapeva. Ma cosa sapeva, poi? Solo quello che aveva visto. I baraccati che erano ai margini del campo di calcio raccontarono a Furio Colombo, che due giorni dopo andò lì, che erano in tanti, in tanti a infierire su un uomo solo per più di mezz’ora, mentre lui gridava “Mamma, mamma!”. Furio disse: “andate a parlarne ai magistrati”, e loro “no no, siamo abusivi e poi ci cacciano via di qua”. Che loro non siano andati dai magistrati è comprensibile, molto meno comprensibile è che i magistrati non siano andati da loro.
Anche tu sei andato all’idroscalo subito dopo l’omicidio.
Sì. Ho ventiquattro anni, vado e porto con me Faustino Durante, che è mio suocero, che a sua volta porta Guido Calvi, all’epoca un giovane avvocato. Scrivo poi la memoria di parte civile del primo processo a Pino Pelosi, su incarico della cugina ed erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi. Tempo dopo c’è il progetto di un film con Abel Ferrara che invece non farò.
Che è successo con Abel Ferrara?
Mi aveva chiesto di scrivere un film su Pasolini di cui lui sarebbe stato il regista. La televisione francese Canal Plus era disposta a produrlo solo se l’avessi scritto io, che ho tantissimo materiale accumulato negli anni e sono molto ben disposto. Ma entro subito in rotta di collisione con Abel perché lui se ne fotte altamente di come sia morto Pasolini. «Io non voglio fare una storia di spionaggio», mi dice. E mi descrive Pasolini con “un uomo ricco che comprava carne”, mandandomi in bestia. Allora scrivo e realizzo un film mio, parallelamente a un libro con lo stesso titolo, per raccontare una parte dei retroscena su quella morte. Altri retroscena sono venuti fuori successivamente.
Facciamo un grande salto all’indietro. A quando hai conosciuto Pasolini.
Avevo nove anni. Lui frequentava la compagna di mio padre, Lorenza Mazzetti, quindi veniva spesso a casa nostra. Lorenza aveva cominciato a fare dei film a Londra non avendo una lira, rubando la pellicola e la macchina da presa alla scuola che frequentava, ma questo Pier Paolo non lo sapeva ed era ansioso di capire come si potesse realizzare un film a basso costo. Veniva insieme a Bernardo Bertolucci, restavano a chiacchierare per ore. Doveva fare Accattone ed era stato accannato da Fellini… Poi un giorno, all’epoca di Teorema, scrive una parte per me. Io quanto a recitazione sono un cagnaccio, e subito, il primo giorno di riprese a Milano, mi impunto: «Non me la sento di proseguire questa impostura, non sono un attore, non posso fare l’attore». Gli chiedo però di essere il suo assistente volontario e lui accetta. Quando, a diciott’anni e quindi poco dopo, sono giornalista all’Unità, divento un po’ il suo tramite: faccio una serie di campagne col giornale contro la censura, contro i sequestri insopportabili dei film, tra cui quelli proprio di Pasolini. Al di là di questo, ci frequentiamo molto. Pur non essendo borgataro (mio padre giornalista e per anni direttore dell’agenzia Tass, mio nonno tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia), faccio parte di questa banda di borgatari, Franco Citti, Ninetto Davoli. Perché sono cresciuto un po’ in mezzo alla strada e parlo la loro stessa lingua, cosa che affascina Pasolini.
Che facevate con questa banda?
Erano anni in cui la sera uscivi senza mèta. Ancora si poteva. Per esempio facevamo le “macchinate”: tutti a bordo di due o tre macchine, e via. Finivamo al Tiburtino III, o magari a vedere l’alba a Pietralata. Lui amava Roma come la può amare un gatto randagio e ci portava tutti dietro.
Raccontami di lui sul set. E nel quotidiano, a parte le macchinate.
Era ovunque lo stesso. Era come era. La persona più gentile del mondo. Non alzava la voce nemmeno quando ci assalivano i fascisti per la strada. Succedeva spesso: lui era molto riconoscibile, con quei tratti del viso, gli occhiali neri, quindi le persone lo fermavano e si mettevano a parlare. Pasolini dedicava tempo a chiunque (e per questo non si arrivava mai puntuali agli appuntamenti). Poi uno o più tipi cominciavano a insultarlo, a botte di “frocio” e altre piacevolezze. Pasolini non mollava, cercava finché possibile di dialogare. Ma se quelli passavano alle mani, lo faceva anche lui. Gli ho visto mettere in fuga anche tre o quattro uomini ben piazzati.
Di che parlavate? Che ti ha insegnato?
Non faceva sermoni di tipo paternalistico. Era un uomo di poche parole, dotato di ironia. A me ha insegnato essenzialmente una cosa: a pensare con la mia testa. Ti cito uno degli infiniti episodi. Ero diventato critico cinematografico dell’Unità e in quel periodo Moravia lo era dell’Espresso. Lo era a modo suo, e tutta la categoria dei critici cinematografici lo prendeva molto in giro. Una sera Pasolini sentì che stavo un po’ schernendo Moravia e mi disse «Sei uno stupido. Moravia vede i film con i suoi occhi e la sua testa, e tu faresti bene a fare la stessa cosa, anziché far parte di una congrega». Se poi vuoi sapere dei suoi discorsi, si partiva sempre da cose semplici, il cibo che stavamo mangiando per esempio, e si poteva arrivare pure a parlare di Socrate, ma così, perché veniva spontaneo. Amava la spontaneità e la sincerità sopra ogni cosa, odiava la falsità e i formalismi. Infatti era fuori da tutti i giri. Ogni tanto si andava nei cosiddetti salotti, ma erano incursioni rapidissime solo per salutare qualcuno e basta, di solito per salutare proprio Moravia.
Hai detto prima che da un certo punto in poi si sentiva soprattutto un giornalista…
Sì, e il rapporto con me era infatti anche professionale. Lui, pubblicista, adorava questo mestiere. Indagava per conto suo, quindi gli servivano articoli, materiale, e me li chiedeva. Scritti corsari, raccolta di articoli apparsi sul Corriere, per me è il libro di iniziazione pasoliniana. I ragazzi oggi lo stanno scoprendo, lo amano. Io vado spesso nelle scuole, ora più che mai perché è l’anno di Pasolini, ed è pieno di giovani interessatissimi a lui e a quel libro, con delle curiosità che non ti aspetti.
Celebrato da decenni e quest’anno più che mai…
Da un lato lo santificano, dall’altro lo vedono come un cliente di marchettari ammazzato una sera per caso da un marchettaro. Pasolini odierebbe tutte queste celebrazioni, non amava nemmeno ricevere premi. Era un dolce ragazzaccio.
Di lui si sono appropriati tutti. Si sottolineano tendenziosamente alcune sue posizioni, che se pure ha avuto allora forse in altri tempi e contesti avrebbe cambiato, e certe sue frasi vengono ripetute come dei mantra. Un po’ come è accaduto con Fabrizio De André. Guai a contestare Pasolini. Cosa ti dà più fastidio delle infinite cose dette su di lui?
Dato che non sono lui né sono suo figlio, mi faccio scivolare tutto, non mi indigno più. Ne ho sentite talmente tante quando era vivo, che ci avevo (e ci aveva anche lui) fatto il callo. Il Pd, che è quella cosa che somiglia alla Dc più di ogni altra identità politica, creò qualche anno fa una scuola di partito a Roma – idea di Massimo Recalcati – intitolata a Pasolini. Un paradosso. Mi diverte vedere quanta gente provi a impossessarsi di Pasolini e che magre figure facciano.
La famosa poesia dalla parte dei poliziotti: “Avete facce di figli di papà. / Buona razza non mente. / Avete lo stesso occhio cattivo. / …Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte / coi poliziotti / io simpatizzavo coi poliziotti!”…
Quanto ci hanno ricamato sopra. Quanto l’hanno usata per denigrare la ribellione dei ragazzi. È tutto molto più semplice e dobbiamo ricordare l’occhio lucido di Pasolini: a Valle Giulia negli scontri con la polizia ci stavano i fascisti, ci stavano Stefano Delle Chiaie e tutta questa gente qua. C’erano le foto, bastava osservarle. Il punto è: perché Pasolini quelle foto le “vedeva”, oltre che guardarle, e gli altri no?
Vedere. Occhio lucido. Ma non solo: Pasolini è considerato un profeta. Tra le tante cose, quale è quella più importante che avrebbe previsto, secondo te?
La più straordinaria è Alì dagli occhi azzurri. È la visione a colori estremamente nitida, a fuoco, della migrazione dall’Africa. Parliamo dei primissimi anni Sessanta. Quella sì che fu come uno squarcio profetico. Per il resto, era… lavoro. Lui indagava, pensava, e giungeva a conclusioni logiche. Aveva negli ultimi tempi un’ansia letteralmente febbrile, tanto che era difficile stare con lui, viaggiava velocissimo. Aveva capito che si stava creando o si era appena creata la P2, con complicità insospettabili di qualsiasi genere. Per fare il colpo di stato senza carri armati e senza sparare un colpo.
Era pessimista. Direi apocalittico. All’intervista del 1° novembre ’75, rilasciata a Furio Colombo poche ore prima di morire, aveva voluto dare un titolo egli stesso: “Perché siamo tutti in pericolo”.
Si sentiva solo. Eravamo in tanti a stargli vicino, Laura Betti forse prima fra tutti, ma lui capiva e soffriva di non riuscire veramente a trasmetterci le scoperte che andava via via facendo, e i suoi timori. Parlavamo spesso di politica, mi aveva fatto portare una lettera a Enrico Berlinguer alle Frattocchie. Amava molto Berlinguer. Poi come aveva visto che si stava realizzando il compromesso storico, era trasecolato e aveva detto “no no, Berlinguer non deve fare un errore di questo genere”.
Temi di cui aveva parlato anche in quell’ultima intervista: l’istruzione scolastica obbligatoria a cui era contrarissimo e che secondo lui appiattiva tutti; la repressione sessuale ancora potente; il consumismo; l’omologazione (che si cita puntualmente insieme al nome di Pasolini, ma in realtà non è per lui un male primario, è la risultante di scuola obbligatoria, più tv, più consumismo). Che avrebbe detto oggi della sessualità, del gender, di questa voglia di nominare e forse normare? L’avrebbe considerata o no la tappa di un percorso di liberazione?
No, avrebbe odiato tutto questo. Si era tenuto sempre lontano anche dal FUORI di Angelo Pezzana, non era d’accordo sulla “sindacalizzazione” degli omosessuali. Figuriamoci adesso. Non puoi più dire nulla, tutto deve essere all’interno di questo cruciverba assurdo, fatto di incastri che sono in realtà proibizioni, limiti.
Sul darsi un nome, definirsi: siamo sicuri che Pasolini fosse di sinistra? Intendo con i parametri dell’epoca, non quelli attuali.
Lui era un comunista. È morto pensando di essere comunista, e se ti dovesse rispondere adesso continuerebbe a dire «Sono un comunista». Con tutto ciò che questo implica, anche illusioni e disillusioni.