Se c’è una regola di stile a cui non si dovrebbe abdicare è quella di parlare di se stessi, soprattutto da una posizione privilegiata di analista di un quotidiano. Se, con la benevolenza della direzione, commetto uno strappo a questa regola aurea è perché mi sento in debito rispetto al cortocircuito che si è realizzato tra il mio ruolo di commentatore dell’attualità politico-istituzionale e un minimo ruolo che ho svolto in modo contingente, e direi casuale, nel dibattito pubblico.

L’abbandono del partito al quale ero iscritto, motivato con argomentazioni facilmente reperibili e che non sarebbe il caso di ripetere il giorno dopo, ha provocato una reazione nell’opinione pubblica, perché di opinione pubblica e non solo di “social” si tratta, che non mi aspettavo. Ho trascorso due intere giornate a parlare a telefono e a rispondere a messaggi raccogliendo consensi, sfoghi, adesioni, inviti a proseguire la riflessione, e anche naturalmente perplessità e dissensi. Si sono animate pagine, chat, gruppi, bacheche. Credo che queste cose avvengano solo quando i tempi sono pronti, e che le stesse azioni svolte in momenti diversi possano avere effetti profondamente diversi, dall’indifferenza, alla distratta attenzione, al consenso entusiastico e all’incitamento al fare che è premessa per cambiare le cose.

Sono stato solo fortunato nel tempo. Ero in scia con l’emozione per la perdita di un uomo di straordinaria umanità e caratura come Sassoli. Ma forse, e in parte inaspettatamente, devo aver colto un nervo scoperto, un bisogno represso, un pensiero che balena e che finora si è scacciato. In piccolissimo riecheggia il mistero delle grandi trasformazioni. Cosa ha prodotto l’assalto alla Bastiglia? Quale è il momento in cui non ci si sente più bambini ma adolescenti o non più adolescenti ma adulti? Alberoni lo chiamava il mistero del potere costituente che, nella sua sociologica dei fenomeni sociali e poi dei sentimenti, era movimento (l’innamoramento) e doveva farsi istituzione (l’amore). E’ andata come è andata. Non c’è un tempo per fare un ragionamento, c’è solo un tempo perché incontri l’interesse altrui. Non era il tempo della politica “normale”, e lo sapevo bene, per raccogliere un’adesione politica esplicita.

La battaglia del Quirinale impone di serrare i ranghi. Ma non era questa la mia urgenza. Mi sono accorto che ciò di cui ho parlato: la selezione della classi dirigenti, le scalate basate su leve diverse dalle idee, il valore della militanza, il senso della politica, rappresentano il convitato di pietra dello stato attuale del Partito Democratico, ma direi di tutto quel po’ che resta del sistema dei partiti italiani. I numerosi parlamentari che mi hanno chiamato, esprimendomi le più diverse idee (“hai sbagliato i tempi, dovevi farlo tra due settimane”; “mica penserai che ti lasciamo solo?!”; “grazie per aperto uno squarcio, hai avuto coraggio, non solo hai fatto bene, era doveroso”, “non sono d’accordo, ma mi dispiace che vai via”, “macchè, alla lotta!!!” e così proseguendo) mi hanno convinto che siamo alla vigilia di un tempo di grandi scelte. Non c’erano le correnti: erano le persone.

Quando ieri scrivevo che il Presidente De Luca non ha compreso il cambio di passo nel paese, non mi riferivo solo alla spicciola politica: la sentenza di un Tar o la volontà di un coniglio dei ministri. Mi riferivo al messaggio contenuto nel fatto di avere un Mario Draghi a Presidente del Consiglio. Certo, ennesima forma di autocommissariamento della politica italiana (Ciampi, Dini, Monti, Draghi). Ma qualcosa di più e, per inciso, è la ragione per cui Draghi non farà mai un partito. L’Italia nel frattempo ha perso parte della propria sovranità a causa del declino e del debito pubblico. Draghi è certo l’uomo della garanzia rispetto ad una politica poco credibile, ma non solo. Non un semplice tecnico, ma già uno statista.

La Presidenza Draghi ha imposto fin dall’inizio a tutti un cambio di passo, ad un collocamento dell’asticella più in alto, al livello dei grandi paesi europei. C’è chi lo ha capito, chi no. Perché l’Italia non può essere un paese normale? Questa è forse la domanda che inconsciamente ponevo. La crisi della politica è dovunque, e quella della società segue a ruota. Ma perché qui si manifesta in queste forme uniche in Occidente? Mi sembra che i tanti dirigenti nazionali che mi hanno chiamato, ognuno con la propria risposta, magari in contraddizione con l’altra, comincino ad averlo ben chiaro. È un seme. Forse ha bisogno ancora di un po’ di tempo.