Ecco perché il fascismo non ci fa più orrore

1. Ricorre domani, 28 ottobre 2022, il centenario della Marcia su Roma. Vedremo se e come Meloni ricorderà l’evento aurorale del regime mussoliniano, data d’inizio per il calendario dell’Era fascista. In tal caso, ascolteremo le sue parole con la dovuta attenzione perché non saranno più quelle di Giorgia (donna, madre, italiana, cristiana), ma della Presidente del Consiglio che, con il suo dire, impegna la Nazione cui è alla guida. Nell’attesa, l’avvio di questa XIX legislatura ha già mostrato alcuni sbalorditivi testacoda tra presente e passato.

Il primo, il 16 ottobre scorso, nella ricorrenza del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma poi avviati nei campi di sterminio, avvenuto nel 1943. La nota di ferma condanna diffusa dalla leader di Fratelli d’Italia ha suscitato reazioni contrastanti: dall’apprezzamento per le «parole particolarmente impegnative» di messa all’indice del nazifascismo (Fiamma Nirenstein), al vigile consenso per le «frasi ineccepibili» da valutare senza preconcetti (Lia Levi), fino allo scetticismo dichiarato per il ricorso, giudicato strumentale, a «parole vuote per legittimarsi» (Edith Bruck).

Il secondo testacoda si è consumato con l’avvicendamento sul seggio più alto di Palazzo Madama tra la senatrice Liliana Segre e il neo-presidente Ignazio Benito La Russa. Non è stato un semplice scambiarsi di posto: ascoltato dalla prima un discorso autenticamente antifascista, l’Assemblea ha poi eletto alla presidenza il secondo, fascista «convinto e non pentito, erede orgoglioso del solo partito della prima Repubblica escluso dall’arco costituzionale» (David Romoli, il Riformista, 6 ottobre). E così – come ha scritto il Direttore di questo giornale – «dopo 80 anni un fascista arriva al vertice dello Stato e ne diventa il numero due». Lawful but awful: lecito ma terribile.
Dunque, la matrice post-fascista di un partito e la biografia neo-fascista di un politico sono aspetti oramai irrilevanti. Come erba falciata, scompaiono dal campo politico-istituzionale. Inutile lagnarsi o indignarsi. Semmai, serve capire il paradosso di un Paese senza memoria eppure prigioniero di un passato che ritorna attraverso i suoi epigoni, votati da 7.300.000 italiani: tutti fascisti?

2. L’odierno lasciapassare politico ed elettorale, in realtà, è il frutto maturo di una ricomposizione autoassolutoria del nostro passato. A dispetto del lavoro non reticente degli storici – oggi accessibile a tutti anche in forma letteraria, grazie alla quadrilogia di Antonio Scurati – la nostra resta una memoria edulcorata e patteggiata. La si vede, in controluce, finanche in una legge simbolica come la n. 211 del 2000, istitutiva del Giorno della Memoria.

Infatti, abbiamo scelto di saldarlo al 27 gennaio 1945 (quando vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz) e non al 16 ottobre 1943, che pure era la data suggerita nella mozione 1-00092 (primo firmatario l’on. Furio Colombo) che diede impulso al relativo dibattito parlamentare. C’è un significativo slittamento di senso tra queste due date: se quella scartata chiamava in causa la diretta responsabilità del fascismo nella Shoah, la data prescelta ne diluisce la correità all’interno di una tragedia (non più nazionale, ma) continentale. Non è una coincidenza. Anche il titolo della legge è ugualmente reticente: il Giorno della Memoria è istituito «in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi nazisti». Una denominazione dove le complicità italiane restano in ombra, soverchiate dalle colpe del partito nazionalsocialista tedesco: infatti, anche nel testo legislativo non ricorrono mai né il sostantivo «fascismo» né l’aggettivo «fascista». Omissione compiuta.

Del resto, all’enfasi legislativa sulla memoria della Shoah non ha mai corrisposto un’adeguata legislazione riparatoria e risarcitoria per le vittime delle leggi razziali (cioè razziste) del 1938, oggetto da sempre di interpretazioni burocraticamente restrittive (cfr. ord. n. 231/1996 della Corte costituzionale). Così come le correità personali nell’applicazione di quelle stesse leggi non hanno precluso sontuosi cursus honorum, fino alla Consulta: i giudici costituzionali Gaetano Azzariti (che ne sarà presidente), Giuseppe Lampis e Antonio Manca erano stati membri del Tribunale della Razza; il giudice Luigi Oggioni era stato procuratore generale della RSI.

3. La giuridificazione della nostra memoria storica, per sovrappiù, sembra un’altalena che oscilla da una sponda (politica) all’altra, alla ricerca di «un improbabile equilibro bipartisan» (Daniela Bifulco, Negare l’evidenza, Franco Angeli, 2012). Così, per comando legislativo, dopo aver istituito il Giorno della Memoria (n. 211 del 2000) e ripristinato il 2 giugno quale Festa della Repubblica (n. 336 del 2000), abbiamo poi moltiplicato le giornate commemorative: in ricordo delle vittime delle foibe (n. 92 del 2004), del crollo del muro di Berlino (n. 24 del 2005), dei Giusti dell’Umanità (n. 212 del 2017).

Ma il cantiere della memoria bipartisan è sempre aperto, come dimostrano i disegni di legge – proposti nelle scorse legislature – miranti a cerchiare nuove date sul calendario civile della nazione: 19 febbraio (Giornata in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana); 13 aprile (Giornata a ricordo dei crimini commessi dai regimi comunisti); 18 aprile (Giornata della democrazia italiana); 10 giugno (Giornata della memoria delle vittime del fascismo); 24 agosto (Giorno del ricordo delle vittime cadute nei gulag sovietici); 8 settembre (Giornata della rinascita della Patria); 9 settembre (Giornata del riscatto nazionale); 20 settembre (Giornata della laicità e a ricordo del completamento dell’Unità d’Italia); 24 settembre (Giornata del ricordo in memoria dell’eccidio di Cefalonia); 9 novembre (Giornata della memoria delle vittime del comunismo). Buon ultimo è il 17 marzo (proclamazione del Regno d’Italia), ipotecato dal presidente La Russa con il suo discorso d’insediamento.

4. Questa macedonia di rimembranze non concorre a fondare quel «patto tra le generazioni, tra memoria e futuro», invocato dalla senatrice Segre quando – riferendosi al 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno – invitava a vivere il nostro calendario civile «con autentico spirito repubblicano». Al contrario, ne è d’ostacolo. Infatti, come un cappotto usato, l’eccesso di memoria legislativa si rovescia nel suo contrario perché «non si dimentica per cancellazione, ma per sovrapposizione, non producendo assenza, ma moltiplicando le presenze» (Umberto Eco docet). Memoria e oblio si contendono lo stesso spazio e il surplus dell’una esige sempre la compensazione ad opera dell’altro.

Se poi l’inflazione memoriale è dovuta ad un esercizio di equilibrismo bipartisan, il comando normativo si rivela anche un modo per ricordare male. Induce, infatti, all’artificiosa assimilazione e al livellamento banalizzante, perché i troppi eventi ricordati vengono collocati tutti sull’identico piano. L’oblio storiografico, infine, trova il suo più grande alleato nello scorrere del tempo. Opporsi ad esso «appare come la più tragica delle cause perse» (Alessandro Piperno, Contro la memoria, Fandango, 2012), tanto più se la combattiamo con le armi sbagliate della memoria legislativa e della commemorazione istituzionalizzata che – alla lunga – muta in ingannevole e stanca routine. Ecco perché, «paradossalmente, la celebrazione della memoria può significarne la sconfitta» (Javier Cercas, L’impostore, Guanda, 2015).

5. Riassumendo. L’illusoria pretesa di colmare l’assenza di una memoria storica collettiva attraverso la giuridificazione del ricordo rivela un esito opposto: l’italiano conosce poco la propria storia e la rammenta in modo accondiscendente. Invece di ricostruire il presente alla luce del passato, ha preferito ricostruire il passato in funzione del presente. Astemi di storia vera, ma ebbri di memoria addomesticata, abbiamo così trasformato il fascismo in un ologramma. Decontestualizzato e disincarnato, è un sembiante che nulla ha più a che fare con il suo tragico originale. Grazie a questo abracadabra, abbiamo potuto guardarci allo specchio e autoassolverci: «Italiani, brava gente».

E così, oggi, rivendicare le proprie origini “fasciste” è segno di apprezzata coerenza; votare un partito post-fascista è un’opzione come un’altra; fare i conti con l’eredità del “fascismo” è operazione a saldo di meri gesti simbolici e contrite parole. Servirebbe ben altro, invece. Solo tenendolo ben piantato nella storia, il fascismo può essere realmente compreso: cioè – come rivela l’etimo verbale – «preso con sé». E il comprendere è fatto non per conoscere o per giustificare, ma per prendere posizione contro quanto accaduto, qui e non altrove.

6. Prendere posizione contro il fascismo è esattamente quanto prescrive la Costituzione repubblicana. Per loro natura, infatti, le carte costituzionali sono come un segnalibro nelle storie nazionali che separa un “prima” da un “dopo”. Così anche la nostra, laddove esprime l’antitesi radicale – storicamente fondata – tra il nuovo ordinamento repubblicano e il fascismo.

Lo fa vietando «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (XII disp. fin.), incapsulando così l’unico limite ideologico alla libertà di associazione. Lo ribadisce – nei suoi artt. 18 e 49 – mettendo al bando l’uso della violenza nella lotta politica, memore del militarismo fascista che «accompagna fin dall’inizio la costruzione di un partito che diventa stato» (Marcello Flores-Giovanni Gozzini, Perché il fascismo è nato in Italia, Laterza, 2022, che ne quantificano, con precisione, il relativo carico di violenza). A giudicare dal presente, alla Repubblica antifascista è subentrata una Nazione blasè, dimentica delle storie di ieri solo perché «i nuovi capi hanno facce serene/e cravatte intonate alla camicia». Un vuoto di memoria, tanto imbarazzante quanto temerario.