La prescrizione è il risultato di un fallimento. Non, come si legge nei testi giuridici, della pretesa punitiva dello Stato. Ma dell’obbligatorietà dell’azione penale. E della inevitabile e conseguente dilatazione all’infinito dei comportamenti definiti come reati, spesso da norme che, mancando dei principi di tipicità e tassatività, rendono solo smisurato il potere del pubblico ministero a mettere il naso ovunque e comunque.

Ecco dunque sui tavoli dei procuratori fascicoli alti qualche metro. E poi l’arbitrio con cui ogni singolo pm estrae, quasi a sorte, un foglio cui dare la precedenza sugli altri. A ogni foglio, non dimentichiamolo, corrispondono reati e anche nomi di persone da indagare, perseguire, magari arrestare e poi processare. Se è vero che ogni anno in Italia si commettono alcuni milioni di reati, o meglio si tengono comportamenti che vengono qualificati come delitti o contravvenzioni, è altrettanto vero che il solo strumento penale non è sempre il più adeguato ad affrontare lo stato delle cose. Ed ecco che, mentre la metratura dei fascicoli aumenta e si impolvera sul tavolo del pm, a un certo unto non resta che alzare le braccia e arrendersi: prescrizione. Cioè fallimento e bandiera bianca. Fallimento del principio costituzionale che obbliga a indagare su tutto e a perseguire tutti.

Il primo risultato è che più del 60% delle prescrizioni si consuma nella fase delle indagini preliminari. Quindi la prima selezione avviene non, come sarebbe logico in uno Stato di diritto, tramite l’uso di soluzioni alternative al mero strumento repressivo, ma attraverso la rinuncia tout court, alla faccia dei tanto conclamati diritti delle vittime. A processo dunque i reati, e gli imputati, arrivano già selezionati. Ma non da una legge che esiste in tutto il mondo occidentale tranne l’Italia, cioè quella sulla discrezionalità dell’azione penale, ma da una prassi che concede un potere illimitato a un organo, quello dei procuratori, che non è sottoposto a nessuna forma di controllo. Agiscono come forze di polizia ma godono di tutte le guarentigie della casta togata. E ogni anno si contano le vittime di giustizia, che non sono solo coloro che vengono assolti dopo anni di carcere e gogna, ma anche coloro, imputati o parti civili, che non possono avere giustizia perché il reato è stato estinto per prescrizione.

L’iniziativa dell’instancabile deputato Enrico Costa, che con un ordine del giorno vuole impegnare il governo a spazzar via il mostriciattolo della legge Bonafede che bloccava la prescrizione alla fine del processo di primo grado, ci riporterebbe, qualora approvata e poi trasformata in legge, alla situazione tradizionale. Cioè indietro di cinque anni, ai tempi del governo Gentiloni e del ministro Orlando, i quali non avevano comunque dato grande prova di garantismo, tanto da rischiare la caduta della legislatura a causa dei dissensi con Matteo Renzi e i malumori del gruppo di Angelino Alfano. La famosa “legge Orlando” infatti, che oggi ci appare come il paradiso terrestre, aveva innalzato di un anno e mezzo il tetto degli anni necessari per dichiarare prescritto un reato e in parte equiparato, con spirito grillino, alcuni reati contro la pubblica amministrazione a quelli, come la mafia e il terrorismo, di grande allarme sociale.

Infatti proprio Enrico Costa, che all’epoca era nel governo come ministro degli Affari regionali, aveva votato contro la sua stessa maggioranza. “Per alcuni reati – aveva detto- bloccare il conto alla rovescia di un anno e mezzo per ogni grado di giudizio ci porta a un passo dal processo perpetuo”. Ma anche la controriforma Bonafede, dal nome ridicolo di “spazzacorrotti”, sulla prescrizione aveva provocato qualche mal di pancia, nel governo giallo-verde.

Mal digerita dalla Lega, che l’aveva barattata con l’approvazione del decreto sicurezza e che ne aveva ottenuto l’entrata in vigore solo al primo gennaio del 2020, dopo la riforma del codice penale, avevano detto Matteo Salvini e a ministra Giulia Bongiorno. Cosa mai avvenuta. Possiamo dunque contare oggi sul ministro Nordio? Non tanto, visto che in un articolo sul Messaggero aveva semplicemente proposto di fissare la data “a quo” per calcolare la prescrizione, al momento non della commissione del reato, ma dell’inizio delle indagini. Dando quindi di nuovo il potere al pm, che deciderà quando iscrivere la persona sul registro degli indagati.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.