Il sì
L’educazione all’affettività a scuola è giusta, ma servono pratiche per sviluppare empatia e consapevolezza emotiva
Nel “Si&No” del Riformista spazio all’idea di introdurre l’educazione all’affettività nelle scuole: è una giusta proposta per fermare i femminicidi? Favorevole la docente universitaria Maria Luisa Iavarone, contrario invece lo scrittore e giornalista Paolo Guzzanti.
Qui il commento di Maria Luisa Iavarone
La tristissima vicenda di Giulia Cecchettin ha riacceso il dibattito sui femminicidi e dunque sulla necessità di individuare “soluzioni” anche educative a contrasto di tale fenomeno. Certamente l’ora di educazione all’affettività a scuola è una delle questioni sul tavolo che trova assolutamente il mio favore. Tuttavia mi lascia perplessa l’idea che il Ministro Valditara abbia individuato in Alessandro Amadori (il consulente individuato all’organizzazione di tale formazione nelle scuole) l’interprete di tale delicatissimo compito. Amadori è autore di un volume intitolato “La Guerra dei sessi” che anche solo terminologicamente propone una contrapposizione competitiva tra i generi nel quale si sostiene che “il diavolo è anche donna”, insomma toni e perifrasi che non certo aiutano né preludono a toni costruttivi e concilianti. Sicuramente l’educazione sentimentale ed affettiva è uno degli aspetti essenziali dello sviluppo psicosociale dei giovani in formazione (maschi e femmine) ma andrebbe compresa ed insegnata attraverso pratiche formative attive di carattere più trasversale legate allo sviluppo dell’empatia, della consapevolezza emotiva, del pensiero critico e della pro-socialità.
La violenza di genere
Certo, la violenza di genere in Italia è un dato di fortissimo allarme sociale. Tra tutti gli omicidi commessi nel mondo in un caso su tre è vittima una donna, in Italia una donna ogni tre giorni trova morte violenta, quasi sempre per mano di un ex partner e i femminicidi, sempre nel nostro paese, superano i delitti di mafia. Gli attori di tutti i tipi di reati violenti sono tra il 60 e l’80% dei casi uomini ma i “sex offenders” sono quasi sempre maschi (oltre l’83%). È evidente che la violenza sulle donne risponde a un dato “di genere”. Affermazione apparentemente generica e pleonastica, ma in realtà la violenza sulle donne è un “genere di violenza” molto specifico, che impone un’analisi di carattere geo-sociale che riguarda la distribuzione del fenomeno a partire dalla sua lettura a livello globale.
In tutto il mondo i femminicidi si commettono in misura minore in quei paesi in cui le donne sono meno emancipate (Africa, Cina, mondo arabo) mentre se ne commettono molti di più proprio in nei paesi in cui le donne sono culturalmente e socialmente più emancipate (America del nord, Europa Occidentale e Orientale, Israele). Proprio nei Paesi ad alto reddito il 25% delle donne (una su quattro) dichiara di aver subito violenza dal proprio compagno (Oms, WHO). Se ne deduce che il femminicidio è un reato delle società più “avanzate” e questo significa che sessismo e ruolizzazione sono paradossali “fattori di protezione” per la sicurezza delle donne. Come dire, se tu donna stai buona e tranquilla al tuo posto, nel tuo angoletto e non mi dai troppo fastidio, vivi più sicura e tranquilla, ma se ti vuoi emancipare, per carità nessuno te lo impedisce, però poi rischi che qualche uomo non tolleri la tua autonomia e dunque qualcosa ti può accadere.
L’emancipazione delle donne
Questo scenario rende evidente che di fatto in occidente viviamo in una “democrazia dei diritti di genere” profondamente immatura, che non garantisce le donne; d’altra parte ciò è espresso anche dal fatto che le donne in Italia hanno ad esempio diritto di voto da meno di 80 anni. Le donne da noi quando si emancipano emergono come fili spuri da un arazzo la cui trama rimane sostanzialmente arcaica e di tipo patriarcale. Il contrasto alla violenza sulle donne deve essere praticato innanzitutto a partire dall’educazione delle donne che educano maschi, in consonanza alla famosa frase di Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace nel 2003, che dichiarò “il maschilismo essere come l’emofilia, che attacca gli uomini ma che viene trasmesso dalle donne che ne sono portatrici sane”.
Effettivamente molte donne sono consapevolmente o inconsapevolmente trasmettitrici di una cultura maschilista di cui spesso sono involontariamente interpreti. Dovremmo investire di più sull’educazione delle giovani madri, sin dalla gravidanza, dalla loro prima relazione di attaccamento e di cura del bambino. Dati di letteratura confermano che la maggior parte dei molestatori seriali e degli stalker aveva sperimentato un attaccamento insicuro con la loro madre. L’attaccamento insicuro-ansioso agirebbe da mediatore dei comportamenti di gelosia-rabbia sia in fase ideativa che comportamentale. L’educazione oggi ha bisogno di investire sulla qualità dell’affettività del maschio ma attraverso le donne, sin dai primi momenti della vita, quale anticorpo emotivo ad alcune derive comportamentali distruttive e sessiste che possono sconfinare nella violenza di genere fino al femminicidio.
© Riproduzione riservata