Oggi le tecnologie, da comodi oggetti di comunicazione, di interazione sociale e di svago, sono diventati strumenti indispensabili per le necessità formative dei nostri studenti privati della scuola a seguito dell’emergenza pandemica. Tutti i sistemi formativi sono stati colti diversamente impreparati a gestire questa emergenza e ciascuno ha fatto del suo meglio facendo ricorso a diverse forme di “didattica a distanza”. Ogni scuola si è organizzata come ha potuto e a proprio modo. Con grande difficoltà gli insegnanti si sono ingegnati cominciando a studiare, loro per primi, in fretta e furia, cosa avrebbero potuto fare per raggiungere più efficacemente i loro alunni. Il Ministero dell’Istruzione ha decisamente traccheggiato e ancora, a tutt’oggi, non è stato in grado di mettere a disposizione una piattaforma unica, per tutto il territorio nazionale, che garantisse l’omogeneità di opportunità formative da destinare agli studenti di tutto il Paese.

Tali disparità di opportunità hanno ulteriormente amplificato le disuguaglianze di partenza, tipiche di alcune realtà territoriali, caratterizzate da uno svantaggio preesistente che si è reso ulteriormente palese attraverso il “digital divide” ovvero quel divario di accesso alle tecnologie da parte di gruppi di popolazione dotati di scarse risorse economiche, basso livello di istruzione, mancanza di infrastrutture (possesso di un PC collegato alla rete).

Questo problema però è solo la punta dell’iceberg di una questione più grande: l’esclusione sociale di oltre il 30% della popolazione, metà della quale costituita proprio da minori in età di obbligo scolastico.

E’ evidente che il digital divide è solo il sintomo nascosto di una patologia cronica più importante che è la povertà educativa e culturale, madre della dispersione scolastica che, a seguito di questa emergenza, rischia ulteriormente di cronicizzarsi. Ed è proprio di quei ragazzi “a rischio di dispersione scolastica”, già prima del Covid, che sono particolarmente preoccupata; minori presi in carico in città da molte realtà associative, tra cui l’Associazione ARTUR, che ne aveva intercettati alcuni, grazie ad un progetto socio-educativo finanziato dalla Fondazione Banco Napoli. Questo tipo di progetti, per loro intrinseca natura, non si possono svolgere a distanza perché “certi bambini” hanno bisogno di essere fisicamente sottratti per un numero di ore al giorno ai loro ambienti di vita e perché la scuola – per loro – è purtroppo dolorosamente l’unica opportunità di salvezza, presidio di protezione e di cura educativa, primo ed ultimo avamposto di integrazione sociale che li sottrae all’abbandono educativo nel quale purtroppo crescono. Per loro il vero problema non è certo la mancata didattica a distanza, di cui francamente se ne fregano, ma semplicemente la “mancanza di scuola”, di quell’ambiente di apprendimento di relazioni e di affettività in cui ricevevano cura responsabile, spazio di sottrazione alla precarietà e all’abbandono, al disagio di luoghi angusti nei quali purtroppo vivono.

A questi ragazzi non servono solo tablet o device; sappiamo bene che tutti i minori dispongono di uno smartphone collegato alla rete ma è la qualità dell’uso che è in discussione; quella cultura di utilizzo di una tecnologia che può venire solo dall’educazione che naturalmente scarseggia in certi contesti in cui l’incultura diviene particolarmente pervasiva a causa della chiusura delle scuole.

Per questi ragazzini, appena comincerà la fase 2 di ripresa graduale delle attività, le autorità dovrebbero prevedere la possibilità di effettuare il tampone che consenta a loro come agli educatori, seppur in piccoli gruppi garantendo il distanziamento sociale, la ripresa il prima possibile delle attività del progetto Artur lab da molti percepito come una opportunità concreta e dignitosa di sottrazione ad un destino che per nessuno deve essere già scritto.

 

Maria Luisa Iavarone

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