L’Europa non è protezionistica, quindi se applica dei dazi alle auto elettriche cinesi va contro il suo Dna. Tuttavia ha le sue buone ragioni per farlo. Purché sia una soluzione temporanea. Questa è la raccomandazione condivisa un po’ da tutti gli operatori del settore, che accettano una misura che viene votata oggi e – quasi certamente – approvata in Consiglio Ue, dopo mesi di dissapori tra gli Stati membri. La prima a opporsi è stata la Germania, poi anche la Spagna. Altre alzate di scudi si sono avute da quei settori produttivi che temevano ritorsioni da parte di Pechino. L’alimentare primo fra tutti.

Il commento di Giorda

«Con le aliquote così stabilite però non si può parlare di barriere protezionistiche vere e proprie», commenta Gianmarco Giorda, Direttore generale di Anfia, l’associazione del sistema Confindustria della filiera automobilistica. «Rispetto al 110% imposto dagli Usa, questi dazi (in generale non superiori al 40%, ndr) si limitano a creare un level plain field utile per giocare ad armi pari con la concorrenza asiatica».

Serve un intervento urgente

L’industria dell’auto è in affanno in tutta Europa. Solo il mercato italiano ha chiuso settembre 2024 con il 10,7% di auto immatricolate in meno rispetto allo stesso periodo del 2023. Serve quindi un intervento di urgenza, che può anche passare da un’azione muscolare – senza eccesso – nei confronti di Pechino. «Tanto più – dice ancora Giorda – che i dazi intendono colpire solo l’elettrico. Ma il 50% dell’import di auto cinesi è ancora a motore termico o ibrido». Ma gli imprenditori sono consapevoli che questo non è sufficiente. Di fronte a una Cina che dal 2009 a oggi ha svincolato tra i 215 e i 230 miliardi di dollari per la sua industria delle Battery Electric Vehicle (Bev) e agli Stati Uniti che a loro volta hanno varato l’Inflation Reduction Act (369 miliardi di dollari), l’Unione europea non si è ancora fatta sentire. Per inciso: in entrambi i casi si tratta di risorse indirizzate non solo all’auto in sé, bensì di politiche industriali volte a sviluppare la tecnologia a monte e incentivare l’aggiornamento professionale dei lavoratori. Ebbene sì, anche gli operai cinesi invecchiano e – per gli stessi nostri problemi demografici e di spesa pubblica – non possono andare in pensione. Quindi devono riqualificarsi.

L’investimento nelle batterie

Ma quel che più conta è che molte di queste risorse sono state investite nella filiera delle batterie. Una componente quasi sempre made in China anche sulle auto di fabbricazione europea. Questo per dire quanto i dazi possano far acqua da molte parti. «Eppure non possiamo permetterci di perdere un settore strategico come l’automotive», a dirlo è Vincenzo Ilotte, general manager di 2a SpA, azienda torinese specializzata nella componentistica in alluminio. «I dazi possono tornare utili se poi possono darci una capacità progettuale di carattere continentale», spiega. «Finora i nostri errori sull’elettrico sono stati da un lato la parcellizzazione delle risorse in interessi nazionali, dall’altro non esserci dotati di una rete infrastrutturale che possa permettere una progressiva sostituzione del motore termico». Ilotte che – in quanto ex presidente della Camera di Commercio di Torino – è stato testimone della deindustrializzazione di un territorio vocato all’automotive, lamenta la perdita di competitività per un settore che ha scritto la storia dell’economica europea.

Una richiesta crescente

«Qui da noi sta passando l’idea che la Cina giochi sporco sussidiando la sua industria. Eppure è la stessa raccomandazione che ha fatto Draghi nel suo rapporto sulla competitività», fa notare Paolo Kauffmann, alla guida di Faro Club, la community di imprenditori e professionisti, dedicata al risk management e alle politiche di ottimizzazione degli acquisti di materie prime. «Per decenni ci siamo nutriti di prodotti made in China realizzati con una tecnologica elementare, un basso costo di manodopera e una scarsa qualità. Ci siamo così illusi di poter rinunciare al nostro manifatturiero. E ancora oggi siamo convinti che la Cina resti quella di allora. Totalmente sbagliato!». Invece di preoccuparsi di Pechino, che comunque sta aprendo dei corridoi di libero scambio con la Turchia e soprattutto la Bulgaria (quindi la Ue) per aggirare i dazi, istituzioni e imprese dovrebbero seguire le dinamiche di crescita. «Il consumatore vuole l’auto elettrica, senza guardare se sia cinese o meno», spiega. «Magari in Italia, il trend è più lento rispetto che altrove, ma questa è la realtà».

Nonostante il bagno di sangue del mercato dell’auto nel suo insieme, la richiesta di auto elettriche è cresciuta del 30% tra settembre scorso e quello del 2023. La stessa percentuale si è avuta rispetto a settembre 2022. Una recente indagine Ipsos dice che il 16% delle famiglie intenzionate ad acquistare auto nei prossimi sei mesi opterà per un’auto elettrica. Anche usata. Andando così a incidere su un segmento solitamente più tradizionalista del settore. Il messaggio della base produttiva è chiaro, quindi. Cara Europa: ok i dazi, ma sfruttali bene. Altrimenti si resta a piedi.