Per capire la politica italiana, il suo impaludarsi in perenni transizioni, il perché di tanti barocchismi, tatticismi e tiramollismi inconcludenti, non bisogna guardare a Roma o, come pure sarebbe legittimo, alle sei regioni in cui si sta per andare a votare, ma a Pomigliano d’arco. Sì, alla Pomigliano dei contadini diventati operai, dell’ex Alfa Sud poi Fiat e Fca, del polo aerospaziale, dei festival del jazz e della provincia orgogliosa e tutt’altro che addormentata. Anche qui si è in piena campagna elettorale. Ma dopo dieci anni di buona amministrazione – buona a detta di molti – Raffaele Russo, il sindaco “civico”, depositario di una lunga tradizione riformista, che non ha assecondato i tempi; che ha resistito alle crisi industriali senza cedimenti al grande capitale; e che ha saputo tutelare la dignità dei luoghi, non può più ripresentarsi, perché dopo due mandati la legge impone di stare fermo un giro.

Ed ecco il punto. In un Paese normale, la discussione pubblica dovrebbe avere un unico focus. Dovrebbe porsi il problema di come non disperdere e anzi valorizzare la “rendita” accumulata nel decennio; e di come preservare il clima, da squadra vincente, che ha consolidato il ruolo di Pomigliano come riferimento non solo geografico, ma culturale e politico. Invece no. A Pomigliano non si discute di questo, ma di come utilizzare la vicenda cittadina in chiave “glocal”: da un lato, per coltivare vecchi rancori anti-riformisti, e nuove, smisurate ambizioni personali; dall’altro per far quadrare il cerchio delle alleanze romane, al fine di saldare l’asse tremulo che tiene per ora insieme, ma domani chissà, i pentastellati di Grillo e Di Maio e i democrat di Zingaretti e Orlando.

Per cui, senza uno straccio di programma, e con un candidato neanche ipotizzato, ma semplicemente aleggiante – si parla di Dario De Falco, consigliere del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro – ecco che a Pomigliano i Cinquestelle, memori di un successo ormai archiviato, aspettano un segnale dal Pd locale; e il Pd invece scalcia, dibatte, si sfida a colpi di comunicati e dichiarazioni. E rischia di spaccarsi, perché una parte vorrebbe unirsi subito in un matrimonio giallorosso; un’altra – libera da condizionamenti esterni – vorrebbe rilanciare l’esperienza dell’amministrazione uscente; e un’altra ancora – probabilmente quella che vincerà – punta ad andare da sola: della serie, muoia Sansone… Ma perché tutto questo accanimento proprio a Pomigliano?

Inutile, dirlo. Pomigliano è la città di Di Maio, la stessa dei suoi compagni di liceo: tutti, compreso De Falco, cooptati in posti di comando; e quella – ancora – della dimaiana Ciarambino, candidata anti-De Luca alla Regione. Perciò qui tutto diventa simbolico, traslato; e la “rendita” costruita sul campo manutenendo la città, torna ad essere quella polverosa dell’Italia prefascista, del notabiliato politico di un tempo che fu. Notabile è infatti Di Maio, quando teme come un atto di lesa maestà una sconfitta nel suo regno, e per questo pretende aiuto dal Pd, alludendo, nel caso contrario, a rinculi nazionali. E notabile è De Luca, quando non tollera neanche l’ipotesi di un’alleanza locale del suo partito con quello dell’avversaria Ciarambino, e per questo lascia paventare la “confisca” elettorale del simbolo Pd. È dunque così che un esempio positivo – la Pomigliano di questi anni – si trasforma di colpo nel suo contrario, e si impaluda; che la politica si arresta e arretra; e che la transizione italiana – perenne, appunto – non trova mai pace.