Lasciatelo lavorare. In questo caso lasciatela lavorare. È storicamente il claim delle elezioni europee qui da noi. In Italia a stento, molto a stento, conosciamo il nome dei raggruppamenti politici all’Europarlamento. Si vota da sempre con lo sguardo rivolto alle cose di casa nostra. Il primo voto “nazionale” delle europee fu il funerale elettorale col tributo alla memoria di Enrico Berlinguer che morì in campagna elettorale e portò il Pci a essere il primo partito col 33%.

Da Berlinguer al ragazzo coccodè

Dopo Berlinguer, le europee hanno avuto risvolti italiani di altro tipo. Sono quasi sempre state elezioni in cui si è andati alle urne per conferire ulteriore legittimità a governare al leader di turno. Il primo caso è quello del 1994. L’Italia di centrosinistra era ancora sotto choc per l’esito del voto del 27 e 28 marzo. Il ragazzo coccodè – così Eugenio Scalfari in maniera sprezzante definì Silvio Berlusconi – aveva vinto ed era cominciata l’era dell’antiberlusconismo. In quel contesto di asprezze, contestazioni, polemiche – che sarebbe proseguito per circa vent’anni – due mesi e mezzo dopo si andò al voto per le Europee. Era il 12 giugno del 1994. In due mesi e mezzo Forza Italia registrò un incremento in percentuale del 50%. Passò dal 21% delle politiche al 30,6% delle europee. Il messaggio degli italiani fu chiaro: ha vinto le elezioni, è legittimato a governare. In realtà durò poco, altri sette mesi, fino al gennaio 1995. Ma questa è un’altra storia.

Il botto prima dell’inizio della fine

Dopo le esperienze del ‘99 e del 2004 in cui il voto europeo assunse la classica fisionomia del voto di mid-term che storicamente boccia i partiti di governo, nel 2009 ritorna la tendenza. Si votò in giugno, il governo Berlusconi aveva stravinto le politiche del 2008 e ancora c’erano gli echi del celebre discorso di Onna, quando, per la prima e unica volta, gli analisti gli riservarono la parola statista. Il centrodestra resse. Forza Italia si attestò al 35%, la Lega al 10% mentre il Pd dal 33% delle politiche scese al 26%. Anche in questo caso fu l’inizio della fine: cominciò il suo lungo declino, tra olgettine, Ruby, lettoni di Putin, spread e processi vari.

La tendenza confermata da Renzi e Salvini

Forse il caso più clamoroso di picco di consenso si ebbe al voto del 2014. Si era all’alba del renzismo. Il 22 febbraio c’era stato il passaggio di consegne con un Enrico Letta livido. Una destituzione politicamente inusuale per il paludato ambiente politicamente nazionale: feroce, spietata e affascinante. A Matteo Renzi presidente del Consiglio mancava l’investitura elettorale. Era arrivato al governo con una abilissima manovra di palazzo. L’enfant prodige toscano della politica attirava critiche e antipatie. Di fatto era la prima volta che un politico, un presidente del Consiglio, aveva tanta dimestichezza con la comunicazione (sì, anche Berlusconi, ma sempre da uomo di una certa età) e con la vita di tutti i giorni. Alle urne si andò il 25 maggio. E fu un plebiscito per Renzi. Il Partito democratico superò addirittura la soglia del 40%: 40,8%. Record storico. Anche nel suo caso, tanto successo condusse poi a una serie di errori e all’inizio della parabola discendente.

E infine il 2019. Col governo Conte in carica. La strana alleanza Lega-M5S. Il Capitano Salvini che monopolizza il dibattito e si attira le critiche dell’opinione pubblica. Si parla quasi solo di lui. E non a caso il voto premia. La Lega stravince le elezioni con il 34,3% dei consensi. Il doppio rispetto alle politiche di un anno prima. Mentre il M5S dimezza i suoi voti. Ora tocca a Giorgia.