Nella cinematografia Herbert George Wells – l’autore del romanzo fantascientifico “La macchina del tempo” (1895) – ha trovato quantità infinite di saccheggi e curiosi anacronismi, tutti accettati con entusiasmo per via dell’adesione spontanea di ognuno al topos letterario che sopravanza ogni altro: il mito del governare il tempo a nostro piacimento. Lasciamo però per un momento da parte ontologie e filosofemi siderali per una curiosità forse minore, ma poi – a ben vedere – non troppo: se con quel marchingegno roboante, futurista e luccicante di ottoni dovessimo programmare una gitarella nel passato, neanche troppo remoto, diciamo indietro di una quarantina d’anni, in questi giorni che precedono le elezioni europee e molte amministrative locali, che aria troveremmo in giro per le città?

Vado a memoria visto che, ahimè, le primavere incorporate lo consentono, riandando al tempo in cui le campagne elettorali erano tutte col voto di preferenza, circostanza che faceva crescere le mille tifoserie dei candidati, con il protagonismo dei “galoppini” (dall’etimo di origine francese, galopin, derivato da galoper, galoppare, che dà pienamente l’idea della fatica delle campagne, roba da chansons de gestes), la disseminazione dei “comitati elettorali”, delle bande degli attacchini che appiccicavano manifesti destinati a durare solo qualche ora per essere ricoperti da quelli di qualche avversario della stessa lista e infine riaffermare l’effimera egemonia magari nella fascia oraria notturna. Era il tempo dei comizi, dei “santini”, quelle striscioline di carta variopinta col nome del candidato nel recto e nel verso un fax simile di scheda, con facce sempre ingenue, un po’ da prima comunione, un po’ da caro estinto, con slogan fatti in casa che – nelle costruzioni più ardite – giocavano con qualche conato di rima o qualche slogan preso in prestito dalla tv e trasmutato in categoria politica per esigenze di comunicazione elettorale.

E, se c’era da fare gli splendidi, oltre il porta a porta con volantinaggio e ragazzi volenterosi acquietati con pizza e birra la sera, i più ricchi si permettevano gli spottoni nelle tv private (in verità ancora più deprimenti del santino cimiteriale fatto in casa) ben sapendo però che questo era solo “contorno”, giusto per fare da conferma dell’attendibilità della candidatura, niente più di uno sfondo alla campagna vera, perché quella dei piccoli e grandi convegni, dei ricevimenti condominiali (con il vassoio delle paste comperato al bar sotto casa) e delle adunate negli auditorium per raccontare la potenza del candidato, la campagna fatta “di persona personalmente” era quella che garantiva i voti. Per le strade, negli androni dei palazzi, in ogni luogo che potesse consentire il minimo assembramento c’era gente in un viavai dall’aria concludente, materiale elettorale, striscioline variopinte, tifo da stadio, qualche volta anche conflitti non soltanto ideologici, soprattutto per la conquista del maledetto tabellone per ficcarci il mitico manifesto e farlo durare.

La macchina di Wells torna al tempo odierno dopo la sortita nel tempo, diciamo così, pre-berlusconiano. Che vediamo? La prima cosa che balza agli occhi sono i tabelloni elettorali, gli spazi predisposti dalle amministrazioni locali per consentire la propaganda con le affissioni, mezzi vuoti e quel poco pieno assai sparuto: l’economia delle piccole e grandi tipografie, che traeva dal periodo elettorale risorse che duravano per un anno almeno, se ne è andata a pallino. Anche quella dei proprietari di locali sfitti “alla strada”, perché i comitati elettorali sono sempre meno e quelli che insistono a rimanere aperti sono sempre più vuoti e inutili, con il ridimensionatissimo materiale elettorale e i piccoli gadget (penne, magliette, cavatappi, cappellini da baseball) che qualche genio dell’advertising elettorale sarà riuscito a piazzare all’ingenuo candidato.

Comizi? Salvo i grandi leader, manco a parlarne. Porta a porta? Ma quando mai. Dibattiti sui programmi (in fondo si parla di Europa al bivio tra l’esistere e lo squagliarsi in un mondo globale infiammato e prepotente)? Ma mi faccia il piacere! E il rapporto tra candidato e popolo votante? Forse qualche schizzo ologrammatico che saltella qua e là nelle liste degli amici di Whatsapp e Facebook, niente di più che un’invettiva contro questo e quello, un alzare il tono dello scontro se no nessuno ti vede.

Intorno le città vuote e la cosmogonia della nuova Europa che somiglia al grugnito di chi, per dire no a tutte le guerre, arruola generali machisti. In compenso, però, le faccette sorridenti dei leader ti salutano bonarie dalle poppe dei bus dell’Atac: nessuno tra questi eccelsi se eletto/a resterà a Bruxelles a far resuscitare l’Europa, perché il daffare qui a Roma è tanto, voi lo capite, vero? Domenica 9, chiusi i seggi, ci si domanderà perché solo meno della metà degli italiani sarà andata al voto. Ma sarà solo un momento, una lieve distrazione in attesa dei risultati veri. Che – detto per incidens – come sempre saranno assai lontani da quelli delle elezioni politiche che pretenderanno di annunciare.