Il sistema elettorale della Quinta Repubblica francese è caratterizzato per le elezioni presidenziali e per la scelta dei membri della Assemblée nationale da un meccanismo che implica un secondo turno, nel caso in cui al primo nessun candidato raggiunga la maggioranza di 50% più uno dei voti espressi. Il Senato, che non ha poteri di veto assoluto sulla produzione di leggi dell’Assemblée, non è eletto direttamente dai cittadini e non sarà oggetto delle osservazioni che seguono. Qui ci concentreremo sull’elezione del presidente della Repubblica e ritorneremo sul sistema elettorale dell’assemblea legislativa francese in giugno, quando esse avranno luogo – esse, infatti, pur applicando la regola del secondo turno non devono scegliere un singolo candidato ma assegnare i 577 seggi della camera più importante del parlamento con modalità, peraltro, in parte diverse da quelle della elezione presidenziale.

La Francia sin dalla Terza Repubblica è sempre stata caratterizzata da un sistema politico contraddistinto da una più o meno importante frammentazione partitica. Con l’inizio della elezione diretta del presidente nel 1965 la competizione è sempre stata fra numerosi candidati. Nessun presidente, nemmeno il generale de Gaulle nel 1965, è mai stato eletto al primo turno. Il secondo turno ha quindi regolarmente avuto luogo. Inoltre, la differenza numerica della percentuale di voti ottenuti, al primo e poi al secondo turno, dal candidato eletto è stata costantemente rilevante, con l’eccezione delle due prime elezioni. Infatti, mentre de Gaulle e Pompidou ottennero al primo turno rispettivamente 44,65% e 44,47%, nelle elezioni successive, a partire dal 1974 per lo più il candidato risultante vincitore al secondo turno ha ottenuto al primo intorno al 30% dei suffragi o meno. Questo significa che il presidente eletto ha ottenuto al ballottaggio un numero significativo di voti che vengono qualificati come seconde preferenze. Infatti, gli elettori dei candidati eliminati al primo hanno scelto in maggioranza di votare per il candidato giunto al ballottaggio meno lontano dalla loro preferenza espressa al primo turno.

Questo trasferimento dei voti avveniva per lo più fra candidati interni alla stessa famiglia politica, la destra e la sinistra, e non creava troppi problemi né agli elettori né al presidente, eletto sulla base di un numero più o meno significativo di seconde preferenze. Il quadro politico attuale vede una Francia divisa non più in due ma in tre orientamenti radicalmente diversi e crea una situazione inedita in particolare per il decisivo 21,95% degli elettori che al primo turno hanno scelto la France insoumise di Jean-Luc Mélenchon, anche perché bisogna tener conto del fatto che nel 2017 Emmanuel Macron era un candidato senza un reale passato politico e quindi una novità, mentre oggi si presenta con un bilancio governativo che ha diviso il paese. Fra Macron, il presidente uscente, e la sfidante Marine Le Pen vincerà chi sarà in grado di persuadere la maggioranza degli elettori, che hanno votato per un candidato escluso dalla competizione finale a due, ad accettare uno dei due finalisti come seconda preferenza.

I sondaggi pubblicati dopo il dibattito fra i due candidati confermano il vantaggio del presidente Macron rispetto alla sfidante. Gli elettori dell’estrema destra – in particolare quelli di Zemmour – non avranno difficoltà a votare per Le Pen. Mentre una buona parte degli elettori di Valérie Pécresse, come lei stessa, voteranno per Macron, come probabilmente parte degli elettori del partito ecologista. Ma il ruolo principale sarà svolto da coloro che al primo turno hanno votato per Mélenchon. Questi sembrano dividersi a loro volta in tre gruppi. Coloro che considerano Le Pen presidente un inaccettabile pericolo per il paese, la sua identità, la sua storia e l’Unione Europea, allora chiudendosi il naso, come diceva Indro Montanelli, voteranno per il mal visto presidente uscente. Quelli che hanno votato per Mélenchon non perché sono di sinistra ma perché scontenti del governo di Macron potrebbero in piccolo numero (sempre secondo i sondaggi sulle intenzioni di voto) votare per la leader del Rassemblement national – come hanno migrato verso la Lega o per il partito di Giorgia Meloni molti che avevano votato per il Movimento di Grillo nel 2018.

Infine, il terzo gruppo è quello dei potenziali astensionisti (inclusi i voti bianchi e nulli) che sembra essere importante sempre sulla base dei sondaggi sulle intenzioni di voto. Se peraltro si cumula il numero di coloro che voteranno per il candidato perdente più coloro che si rifiutano di scegliere non è sorprendente constatare che l’eletto avrà una limitata autorità nei confronti dei cittadini. E che il paese rischia di essere preso nella trappola – a seconda di chi sarà eletto – o di un governo troppo debole o di una torsione autoritaria dello stesso per imporre l’autorità della legge. Questo è un indizio del fatto che il valore autorizzante l’autorità delle seconde preferenze scema. Perché un numero probabilmente crescente di esse ha come contenuto il non voto. Cioè il rifiuto del sistema elettorale a doppio turno, che pure ha funzionato per la maggior parte della vita della seconda repubblica.

Emerge qualcosa come uno scollamento fra il sistema elettorale ed il fondamento del regime rappresentativo. Il più importante teorico francese di quest’ultimo, Emmanuel Sieyes, sosteneva che poiché tutti devono obbedire alle leggi, tutti devono partecipare alla produzione delle medesime attraverso il voto. Se il voto esprime invece per la maggioranza dei cittadini il rifiuto dell’autorità prodotta dalle elezioni qualcosa comincia a non funzionare più nel sistema politico. Dopo il 24 aprile i francesi, ma anche noi in Italia dovremo riflettere su questo tema. E osservare con attenzione il risultato delle prossime elezioni legislative in Francia.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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