La diagnosi più apocalittica sulla campagna elettorale in Francia l’ha fatta Bruno Le Maire, ministro delle Finanze e pilastro del partito Renaissance di Emmanuel Macron: “Il paese sta andando in malora”. Dopo lo scioglimento anticipato del parlamento e la convocazione di nuove elezioni da parte del presidente, la paura dei liberal-democratici transalpini è diventata tangibile. La mossa di Macron sarà sufficiente per bloccare l’ascesa di Marine Le Pen? E chi riempirà l’enorme vuoto nel centro politico quando la sua presidenza finirà nel 2027? Tra i due turni del 30 giugno e del 7 luglio, la coalizione centrista di Macron rischia di essere spazzata via, sia dall’estrema destra che dalla sinistra radicale. Dopo la sciagurata e anticipatrice esperienza italiana, il mostro del bipopulismo si affaccia ormai anche in Francia, dopo che per ben due mandati Macron, sfruttando le peculiarità del sistema presidenziale francese, aveva fatto da argine.
Il programma economico del Rassemblement National è un concentrato di populismo spendaccione che spaventa già i mercati internazionali e le cancellerie europee. Secondo la società di consulenza Asterès, l’impatto dei programmi di spesa pubblica promessa dal Rn sulle finanze pubbliche francesi potrebbe essere due volte più doloroso di quello accaduto nel Regno Unito sotto il governo di Liz Truss (poi costretta dimettersi). Le Pen e il suo delfino Bardella hanno criticato ferocemente la sensata riforma delle pensioni imposta da Macron un anno fa per garantire la sostenibilità del welfare francese. Il Rassemblement National aveva spinto per un’età pensionabile a 60 anni (in seguito ammessa a 62 per coloro che iniziano a lavorare in giovane età), mentre Macron ha portato la soglia a 64 anni, provocando proteste di piazza durate mesi. Almeno a parole, sia la destra estrema che la sinistra radicale ambiscono a cancellare quel provvedimento, surfando sui cavalloni della ribellione populista. In più, nella sua agenda economica Le Pen ha messo in fila una serie di misure demagogiche come il taglio delle tasse sulle bollette dell’elettricità e del carburante e la riduzione dell’Iva su un paniere di prodotti alimentari e domestici essenziali. Per gli economisti sono promesse incoerenti, destinate ad aumentare un deficit già in espansione.
Uno studio dell’Institut Montaigne aveva già stimato in oltre 101 miliardi di euro la spesa aggiuntiva annuale per il programma lepenista formulato per le elezioni presidenziali del 2022. Il Rassemblement National ha abbandonato le minacce più estreme – come l’uscita dall’Eurozona o addirittura dall’Unione Europea – ma il suo programma economico resta intriso di un pericoloso protezionismo nazionalista. Nella campagna presidenziale del 2022 Le Pen aveva promesso di esentare i lavoratori sotto i 30 anni dall’imposta sul reddito per combattere la fuga di cervelli e di nazionalizzare le autostrade francesi per ridurre i pedaggi impopolari delle strade principali. Aveva anche promesso di imporre una “preferenza nazionale” per gli appalti pubblici, che andrebbe contro le regole del mercato unico dell’Ue.
Secondo Le Pen e Bardella, il finanziamento di queste politiche si dovrebbe basare sui piani anti-immigrazione e sui tagli ai benefici che i migranti ricevono in Francia, compresi il sostegno finanziario quando sono senza lavoro o gli aiuti familiari alle famiglie senza almeno un genitore francese. Insomma, pura demagogia. In generale, si tratta di promesse irrazionali che raccolgono la rabbia e il risentimento degli elettori senza ricordare le conseguenze in termini di debito pubblico. È ancora troppo presto per parlare di declino francese, perché al momento la produttività generale del paese è decisamente superiore rispetto a quella dell’Italia.
Tuttavia, la Francia comincia a chiedersi per quanto tempo il proprio sistema di welfare resterà sostenibile senza collassare su se stesso, visto che gli stessi cittadini si sono abituati a ricevere benefici dallo stato senza porsi il problema della sostenibilità. Una domanda che resterebbe in piedi anche nel caso di una vittoria del Fronte Popolare il cui programma presenta eccessi di statalismo che rischiano di aggravare ulteriormente la crisi dell’economia francese. Dopo anni di divisioni, le quattro principali forze di sinistra del paese, verdi, socialisti, comunisti e il movimento France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, hanno siglato la settimana scorsa un accordo per un nuovo Fronte Popolare. Una pessima notizia per la coalizione di Macron, che nell’assemblea che conta in tutto 577 seggi potrebbe passare dai 250 attuali a meno di 100. In pratica, la simpatia dell’elettorato transalpino per lo statalismo populista – nelle sue due versioni: corporativa e nazionalista a destra, antimercatista e burocratico a sinistra – miscelato all’irresponsabilità fiscale nella gestione del bilancio può diventare una minaccia di instabilità non solo per la Francia ma per tutta l’Europa.