«È la più grande vittoria della mia vita, un successo enorme». Benjamin Netanyahu canta vittoria dopo il voto del 2 marzo, anche se il distacco con lo sfidante Benny Gantz è ampio ma non sufficiente per formare un governo. All’indomani delle elezioni, le terze in meno di dodici mesi, in Israele, il leader del Likud è già al lavoro per creare un esecutivo che faccia ripartire il Paese e metta lui al riparo dalle beghe giudiziarie. L’ex capo di Stato maggiore alla guida di Blu e Bianco ha assicurato che rispetterà «la decisione degli elettori», sottolineando tuttavia che il primo ministro «non ha la maggioranza». Con il 99% dei voti scrutinati, il blocco di destra guidato da Netanyahu scende da 59 a 58 seggi portando così a tre il distacco dalla maggioranza di 61 su 120 alla Knesset. Inoltre, Blu-Bianco di Benny Gantz sale a 33 seggi riducendo il distacco dal Likud di Netanyahu che si attesta a 37. A scendere è il partito religioso Shas che perde un seggio fermandosi a 9. La Lista Araba Unita è a 15 seggi, terzo partito di Israele. Un risultato storico, quest’ultimo, che fa della Joint List la maggiore forza di opposizione. A guidarla è Ayman Odeh.

Una «disfatta per lo Stato di diritto» e «un giorno nero per chi cercava di mettersi alle spalle l’incubo degli anni di Netanyahu al potere, caratterizzati da istigazione, divisione e razzismo». Così Haaretz, uno dei più diffusi e autorevoli quotidiani israeliani, commenta il voto di martedì. La vittoria di “King Bibi” è un lutto così difficile da elaborare?
È un duro colpo, inutile nasconderlo, che getta ombre inquietanti sul futuro d’Israele. La svolta non c’è stata, ma i risultati dicono che Netanyahu ha vinto ma non ha trionfato e che le forze progressiste devono trovare la forza di rialzarsi al più presto. La partita non è ancora chiusa.

A scrutinio pressoché concluso, la Joint List conquista 15 seggi, consolidando il suo essere la terza forza nel nuovo Parlamento.
Questo è il più grande risultato parlamentare dalla prima Knesset nel 1949. Un risultato tanto più significativo visto che siamo stati l’unico partito di opposizione a crescere rispetto alle elezioni di settembre.

Da cosa è dipeso questo risultato?
Dalla coerenza delle nostre posizioni. Da una opposizione netta alle destre e non solo a Netanyahu. L’ambiguità non paga, e Benny Gantz (il leader del partito centrista Kahol Lavan, ndr) ha pagato caro le sue oscillazioni. Si era accreditato come l’uomo che avrebbe unito Israele e invece ha condotto una campagna elettorale che ha diviso il fronte anti-destre.

Lei fa riferimento all’affermazione di Gantz che se fosse stato lui a vincere non avrebbe imbarcato la Joint List nel suo governo?
A questo, certamente, ma non solo a questo. Alla prova dei fatti, Gantz non ha saputo, o forse non ha voluto, presentarsi come il leader di un vero cambiamento, portatore di una visione radicalmente alternativa a quella delle destre. Ha rincorso Netanyahu cercando di accreditarsi come un moderato dalle mani pulite, ma sui grandi temi sociali e politici, ha fatto prevalere la linea della continuità rispetto a quella della rottura. Una scelta che non ha pagato. Come non ha pagato il suo accodarsi a Netanyahu nell’accettare il cosiddetto “Piano del secolo” di Trump. Quel piano è stato confezionato ad uso e consumo elettorale di Netanyahu, del quale il presidente Usa è non solo un convinto sostenitore ma anche amico personale. Giocare sulla difensiva è un errore che in politica può costar caro. Se oggi Netanyahu può gioire non è certo per aver ottenuto il sostegno degli arabi israeliani (che secondo un rilevamento statistico hanno votato per l’88% la Joint List, ndr), ma per i risultati negativi ottenuti da Kahol Lavan e dalla sinistra sionista.

La Joint List è oggi è il partito di opposizione più forte nel campo progressista. Come intende usare il consenso ricevuto?
Per costruire una alternativa credibile alle destre. Il successo della Joint List è l’inizio dell’ascesa di una vera sinistra. Una sinistra che supera i vecchi steccati identitari, che unisce per la visione e le battaglie che conduce al di là dell’appartenenza comunitaria. La Joint List nasce avendo come punto di riferimento la comunità araba israeliana (oltre il 20% della popolazione d’Israele, ndr) ma il risultato straordinario che abbiamo ottenuto in queste elezioni lo si deve al fatto che siamo riusciti a parlare anche ai cittadini ebrei israeliani progressisti, contrari alla deriva etnocratica della destra e insofferenti alla subalternità culturale, prim’ancora che politica, dimostrata dalla sinistra tradizionale. Ora il nostro impegno è quello di lavorare, fin da subito, per costruire relazioni con tutte le comunità israeliane che affrontano l’ingiustizia.

Il voto premia Netanyahu. Da cosa nasce, a suo avviso, questo successo?
Le componenti di questo risultato sono diverse: c’è la tempra di combattente di Netanyahu, l’aver condotto una campagna elettorale aggressiva, spregiudicata, a differenza del suo maggiore sfidante. Ma dietro questo risultato c’è anche un dato che deve far riflettere e inquietare: una parte d’Israele ha dato fiducia a un leader che tra qualche settimana potrebbe essere condannato per gravi reati di corruzione. Quel voto dice che tanti israeliani tra legalità e l’uomo forte, hanno scelto quest’ultimo.

Il fronte delle destre sfiora la maggioranza dei 61 seggi (58) ma non la raggiunge. Torna decisivo Yisrael Beiteinu, il partito della destra nazionalista di Avigdor Liberman?
Aggrapparsi a Lieberman sarebbe il suicidio politico per le forze progressiste israeliane. Lieberman non ha aumentato i suoi consensi e di fronte al successo di Netanyahu il suo potere d’interdizione è decisamente diminuito. Se la sinistra non vuole scomparire definitivamente, deve attrezzarsi ad una battaglia di opposizione. A questo non esistono scorciatoie. E spero che Gantz ne sia consapevole. Un patto con Bibi sarebbe un suicidio politico.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.