La crisi della democrazia
Elezioni presidenziali, la politica è la grande assente
Può risultare persino fastidioso il continuo ritornare sulla morte della politica del nostro Paese, tanto sono evidenti e ripetuti gli episodi che lo testimoniano. Può invece essere ugualmente utile insistervi almeno finché i morti non continueranno a occupare la vita pubblica, contribuendo così a impedirne la rinascita. Dovrebbe infine emergere la necessità di liberarsene per intraprendere il nuovo cammino, il cammino della sua rifondazione.
Un capitolo assai rilevante di questa storia riguarda la sinistra politico-istituzionale, che è parte decisiva di quella, e dalla cui sorte in larga misura dipende. Due storie diverse e parallele, come quella italiana e quella francese, conducono alla stessa conclusione. Alla crisi non si dà soluzione con imprese di ingegneria istituzionale, né con le supplenze dettate dall’emergenza. La crisi che viviamo è di fondo ed è lì che va cercata la soluzione di un problema che non accetta alcuna scorciatoia di sorta. Italia e Francia si stanno inoltrando sulla via che conduce a un appuntamento assai importante nella loro vita democratica sul terreno istituzionale: l’elezione del Presidente della Repubblica. Diverse sono le forme: semipresidenziale l’una, parlamentare l’altra; diverso è il tipo di elezione: a diretto esercizio di voto popolare, in Francia; con voto indiretto espresso dalla rappresentanza parlamentare e regionale, in Italia. Diverse sono anche le responsabilità e le attribuzioni di potere dei due Presidenti della Repubblica. Dovrebbero essere indotti alla riflessione sia coloro, come chi scrive, sostenitori della democrazia parlamentare, sia, mi pare a maggior ragione ancora per l’elemento salvifico da loro attribuito al sistema presidenziale, chi propone anche per l’Italia l’assetto presidenziale stesso.
Si può avere la più netta opzione a favore di un modello piuttosto che di un altro, ma quel che accade in uno piuttosto che nell’altro, in Italia come in Francia, è lo stesso movimento della politica sempre più avvolta dalla sua crisi, sempre più attraversata da una separazione con il Paese reale. In Francia, un’inchiesta di Le Monde ci dice che una parte dell’elettorato tradizionale della sinistra si dichiara ora incerto persino a partecipare al ballottaggio che opporrà Macron al candidato della destra francese. Da noi, queste settimane che hanno preceduto il voto per il nuovo Presidente sono state assolutamente deprimenti e per molti versi anche sconcertanti. La politica è stata la grande assente, sovrastata dai retroscena, cioè da ciò che non si vorrebbe far sapere al Paese. Non sono venute alla luce le diverse opzioni possibili dei diversi Presidenti dalla Repubblica, diversamente auspicabili. Tutto affonda e riaffiora dalle sabbie mobili in cui è sprofondata la politica. Solo il paradosso ha occupato la scena. I partiti si sono ridotti a fare le comparse, i loro leader sostanzialmente ritirati dal campo dove si dovrebbero costruire e confrontare le proposte vincenti. Il vuoto è stato occupato da un protagonista visibile, Berlusconi, un candidato senza alcuna possibilità di successo, e da un protagonismo invisibile, un protagonista nascosto, Draghi, il candidato con possibilità di successo. Dunque, a un appuntamento così importante, come l’elezione del Presidente della Repubblica, la politica ha rivelato ancora una volta la sua sostanziale scomparsa.
Non è neppure, se così si può dire, questa la più grave delle sue dipartite. La più drammatica la scopri appena ti addentri nella vita vera, nella vita del Paese reale. I drammi, le tragedie che incontri, dovrebbero scuotere la politica, cambiarne l’ordine del giorno, mobilitare i partiti, mettere la ricerca delle soluzioni davanti a ogni altra questione, dovrebbero costringere i partiti a occupare, con il confronto, la scena delle scelte programmatiche e istituzionali necessarie per uscire dalla crisi sociale. Nulla vi dovrebbe sfuggire, invece tutto, proprio tutto, vi sfugge. Appare per un attimo sul teatro della rappresentazione delle comunicazioni di massa e subito dopo, così com’era apparso, così si allontana, lasciando la politica senza traccia. Non tacerei mai sulla sorte di chi muore sul lavoro, in quella serie terribile di omicidi che non si possono più chiamare bianchi. E si parla di un terribile problema specifico, mentre contemporaneamente alludono direttamente a quello più generale, cioè la sorte del lavoro nel capitalismo finanziario globale, in quest’Europa reale e in questa Italia del Piano nazionale di ripresa e di resilienza. Il lavoro salariato, il lavoro dipendente, il lavoro eterodiretto, autonomo, sono diventati il ventre molle dell’economia del Paese. La crisi pandemica ne ha viste dilatate le fragilità, le dipendenze, le precarietà, ne ha visto penetrare ed espandersi il lavoro povero. Dentro questi processi covano le vecchie e nuove malattie dei mestieri, fino a quell’esposizione a rischio di morte da cui siamo partiti.
L’articolo 1 della Costituzione ci dice che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Lo ricordo qui solo per dire quanto sia politica la questione del lavoro, delle condizioni del lavoro e di vita delle lavoratrici e dei lavoratori. Ma la politica reale, il governo, le istituzioni, i partiti, sono usciti dal campo. Sono divenuti spettatori invece che protagonisti. È da qui, dal divorzio della politica con il popolo, con il lavoro e la vita di lavoro, che muove la sua cronica malattia, la malattia che lo conduce inesorabilmente anche alla sua inesistenza sul terreno politico-istituzionale, come ha clamorosamente dimostrato la frase proclamatoria dell’elezione del Presidente della Repubblica. Dalla diserzione della politica sul tema del lavoro si arriva alla dipendenza dal meccanismo di accumulazione capitalistico corrente, si arriva all’accettazione della tendenza all’accrescimento esponenziale delle diseguaglianze nella società. Possibile che neppure sugli elementi quantitativi del lavoro, quali la retribuzione, non ci sia un intervento neppure di fronte a quell’implacabile forbice che ci parla della nostra come della peggior situazione in Europa? Basti ricordare che da noi nello stesso periodo in cui in Francia, in Germania, le retribuzioni sono aumentate di oltre il 30%, da noi hanno perso quasi il 3%.
E allora? Allora niente. Come niente si registra di interventi legislativi, provvedimenti del governo, iniziative politiche di proposte dei partiti. C’è forse qualcuno che ha letto o sentito di una qualche proposta di aumento generalizzata dei salari e di estensione degli stessi a chi non ce l’ha? E se poi spunta improvviso – improvviso ma non imprevedibile – uno sciopero generale, lo si avvolge subito nel silenzio in modo che non possa riproporsi a ricordare il drammatico problema che è rimasto irrisolto. Se ne occupa il lavoro d’inchiesta, viene messo in rilievo nella letteratura scientifica. Ne può scrivere il governatore della Banca Centrale, Ignazio Visco, ne è indotto a parlare anche Carlos Tavares, l’Amministratore delegato di Stellantis, non se ne occupa invece la politica. Non c’è altra ragione possibile se non che essa è già morta. Per la sinistra politico-istituzionale, in questo più generale concerto c’è la conferma inoppugnabile quando emergono i numeri che parlano delle diseguaglianze dei nostri giorni. Lasciamo fuori da questo ragionamento i dati mondiali. Basti che nella pandemia, dal marzo del 2020, Jeff Bezos ha avuto una variazione patrimoniale, cioè ha incassato, 81,5 miliardi di dollari. Si calcola che essi sarebbero bastati a fornire tre dosi di vaccino per tutti gli abitanti del mondo.
Intanto i poveri assoluti, quelli che “vivono” con meno di 1 dollaro al giorno, sono aumentati di oltre 160milioni di persone. Restiamo in Italia, dove i 40 miliardari più ricchi del Paese posseggono l’equivalente della ricchezza del 30% degli italiani più poveri, che sono circa 18 milioni di persone. Si è forse sentito qualche partito reagire a questa fotografia che descrive un’ineguaglianza intollerabile? Si è forse sentito qualche partito, che so io, proporre una tassazione forte e crescente sulle grandi ricchezze? Tassazione così significativamente diminuita invece nell’ultimo quarto di secolo. Si è sentito qualcuno proporre una tassa di successione all’altezza di questa divaricazione? O l’adozione d’urgenza di una vera patrimoniale? E si è sentito forse qualcuno, sul versante opposto, proporre un’espansione qualitativa e quantitativa di un vero reddito di cittadinanza? Il silenzio è la lingua dei morti e dalle nostre parti è diventata la lingua della politica.
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