Siamo agli sgoccioli di una campagna elettorale lunghissima. Kamala Harris, che ha sostituto Joe Biden in corsa, è partita ufficialmente lo scorso 21 luglio. Invece per il suo sfidante, Donald Trump, è iniziata molto prima. Forse, potremmo addirittura datarla al 25 agosto 2023, data in cui l’account Twitter – all’epoca si chiamava ancora così il social network acquistato da Musk – di Donald Trump pubblica la foto segnaletica dell’ex presidente scattata qualche minuto dopo l’arresto da parte della polizia di Atlanta. Sotto quello scatto c’era la scritta “Never Surrender”, mai arrendersi e, in particolare, la stratosferica cifra di 330 milioni di visualizzazioni, oltre che 2 milioni di like.
Solo che X, o Twitter che dir si voglia, non è l’unica piattaforma in cui i due candidati si sono sfidati a colpi di post, reel e caroselli e con la quale hanno provato a portare nelle case e negli smartphone degli americani il loro personale racconto elettorale. Entrambi, infatti, hanno sfruttato l’ampiezza e la varietà dell’ecosistema mediale dei social network, utilizzando ovviamente Facebook e Instagram, Youtube e WhatsApp, così come la nuova frontiera rappresentata da TikTok.

A tre giorni dal voto del prossimo 5 novembre, se volessimo assegnare a uno dei due il riconoscimento per la miglior strategia social allora questo deve andare necessariamente a Donald Trump, con una duplice motivazione: la prima attiene al numero di social presidiati, infatti oltre a quelli già citati, ci sono anche Telegram, Truth, Rumble e Reddit. La seconda, è invece legata alla coerenza tra la narrazione trumpiana e la ratio algoritmica della piattaforma. Sul punto, provo a spiegarmi meglio. Contrariamente a quanto si potesse ipotizzare, Trump ha utilizzato il racconto social prima di tutto per costruire e dare autenticità al suo essere una persona ordinaria, vicina e dentro la quotidianità della middle class americana, alle sue pulsioni, alle sue paure, ai suoi stili e preferenze narrativi.

Abbiamo citato già il post della foto segnaletica, ma poi chi tra noi, per fare un altro esempio più vicino, non rammenta la foto di Trump sul palco di Butler in Pennsylvania con l’orecchio sanguinante e il braccio teso al cielo dopo il fallito attentato. Una immagina diventata iconica grazie alla viralità generata direttamente dagli utenti. Altrettanto, quanti di noi, anche da questa parte dell’Atlantico, non ha in testa i balletti, tanto ridicoli quanto efficaci in questa strategia social di normalizzazione, i tanti meme che lo stesso Trump ha pubblicato sui suoi account nonostante lo ridicolizzassero, ma poi ci sono anche le incursioni al McDrive per friggere le patatine e hamburger, sul camion per la raccolta dei rifiuti, in qualche coffee shop o al supermercato.

A Trump è riuscita benissimo l’operazione autenticità, facendo collimare – agli occhi dei follower – l’identità fisica, quella televisiva e quella digitale. A Kamala Harris, alla quale va riconosciuto di aver fatto un grande lavoro e di aver riaperto una partita che sembrava già segnata, questa convergenza invece è riuscita meno.
Insomma, Trump dopo Obama è stato il candidato presidente che ha saputo sfruttare meglio degli altri la capacità dei social network di viralizzare i messaggi e ottenere l’attenzione degli americani. Servirà per vincere le elezioni, non è possibile affermarlo con certezza, ma è comunque un vantaggio da non sottovalutare.

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Domenico Giordano è spin doctor per Arcadia, agenzia di comunicazione di cui è anche amministratore. Collabora con diverse testate giornalistiche sempre sui temi della comunicazione politica e delle analisi degli insight dei social e della rete. È socio dell’Associazione Italiana di Comunicazione Politica. Quest'anno ha pubblicato "La Regina della Rete, le origini del successo digitale di Giorgia Meloni (Graus Edizioni 2023).